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Quando i nani si credono giganti
Racconti tra fantasia e realtà


QUANDO I NANI SI CREDONO GIGANTI

RACCONTI TRA FANTASIA E REALTA’

DEDICA E RINGRAZIAMENTI

Dedico questo libro alla mia splendida famiglia.

Ringrazio di cuore Silvio Sgamma per la sua bellissima presentazione e per il suo commento in merito al racconto “Il pappagallo convertito”. Un grazie particolare a mio figlio Francesco per l’ideazione e realizzazione della copertina.

PREFAZIONE

Amo scrivere, non solo per esprimere me stessa e per comunicare agli altri, ma soprattutto perché in questo modo riesco ad esprimermi maggiormente piuttosto che parlando. Attraverso i miei libri cerco di trasmettere le emozioni, i sentimenti, i pensieri. I temi affrontati sono assortiti. Di solito non mi limito a raccontare fatti accaduti, ma anche creando racconti immaginari, che a volte esulano persino dalla realtà. Metto in gioco la mia fantasia, i miei desideri, i miei sogni, ma soprattutto mi soffermo sull’aspetto psicologico e intimo dei personaggi, cercando di scavare più profondamente possibile nell’animo di ciascuno di essi.

Spesso mi è inevitabile prendere spunto dalla realtà, dalla conoscenza degli individui protagonisti, da qualcuno che mi colpisce in modo particolare o da una bizzarra situazione che si è venuta a creare. L’ osservazione della realtà e le esperienze vissute, diventano quindi ispirazione ove poter creare qualcosa di nuovo. Tante volte i miei scritti nascono per caso. Esistono mille sfaccettature, così come esistono le diverse sfumature dei colori trasportati sulla tela.

Essendo una pittrice - ritrattista, sono anche abituale osservatrice, per cui mi viene spontaneo cogliere il carattere di una persona, non solo dalle fattezze fisiche, ma anche tramite il segno, ovvero attraverso un’analisi approfondita dell’indole, mediante la parola. Il libro: “Quando i nani si credono giganti” si suddivide in tre parti: la prima parte riguarda storie inventate e lasciano trapelare il messaggio che il titolo stesso dell’opera vuole suggerire, per cui sono accomunate da un unico filo conduttore.

Nella prima parte, tra i racconti, ho incluso un lungo capitolo intitolato: “Il protagonismo degli ignavi”, che racchiude diversi paragrafi, come una sorta di mini romanzo e cioè: “Io non ti conosco”, “La santa con le corna”, “Parenti pretenziosi”. “La testardaggine di Carla e i parenti invadenti”, “Il vittimismo e la grande contraddizione di Carla”, “Incomprensioni e ingerenze”, “Quando i nani si credono giganti”, “Il vittimismo degli aguzzini”.

La seconda parte contiene racconti di fantasia umoristici e alcune poesie. La terza parte include storie reali, ovvero: “Il saluto negato”, il quale richiama il tema più ricorrente che ho appositamente voluto affrontare, la superbia. La superbia si traduce in una forma di discriminazione, simile al razzismo sviluppato nel proprio ambito sociale, in cui i meno ricchi, i meno colti, i meno titolati sono considerati inferiori. La superbia quindi ha le stesse radici del razzismo, in quanto presunzione di superiorità.

Ma esistono anche persone che non presentano queste caratteristiche di privilegio, eppure manifestano la propria superbia attraverso altri atteggiamenti e motivazioni che non esistono, quindi non è detto che questo connotato negativo sia necessariamente legato a tali requisiti, ma esclusivamente alla propria convinzione di essere superiore agli altri. Attraverso queste pagine ho cercato di mettere in evidenza i difetti umani e come in essi s’ inneschino certe dinamiche, determinate soprattutto dagli strani atteggiamenti di alcuni personaggi, dove non a caso scaturiscono delle particolari situazioni ai limiti del paradosso.

Il contenuto delle pagine è un miscuglio di ironia e di drammaticità. In alcuni passi ho messo in luce il senso tragicomico della vita. Alcuni racconti potrebbero prestarsi a delle sceneggiature teatrali, come ad esempio: “Il pappagallo convertito”, “Il matrimonio occultato”, “Il ritratto della discordia”, “Il ritratto con le corna”. La finalità di quest’opera è di far sorridere e stimolare il lettore alla riflessione, nonché spronarlo ed abituarlo a vedere la realtà, al di là di ogni equivoca apparenza. Olga Serina

7 Ottobre 2018

PRESENTAZIONE DI SILVIO SGAMMA

Un libro ha un cuore, ha un’anima, ha una voce talvolta allegra, talvolta triste, talvolta istruttiva, talvolta semplicemente consigliera. Scrivere un libro non è da tutti, manifestare un proprio pensiero, aprire l’animo, confessare al prossimo gioie o dispiaceri, soddisfazioni o tormenti, è riservato ai pochi eletti e quei pochi che riescono a concepire e realizzare un tale progetto, senza dare la precedenza all’egocentrico “Io”, meritano ammirazione e caloroso plauso.

Olga ha oramai superato a pieno titolo l’esame. La serie di scritti: siano essi realistici, fantasiosi o semplicemente di saggistica istruzione, che ha sin qui redatto e sottoposto alla nostra lettura, ci danno un quadro completo di quanto vengo ad affermare in questa mia succinta presentazione, senza nulla eccedere o enfatizzare. Nel suo ultimo lavoro, “QUANDO I NANI SI CREDONO GIGANTI” l’artista scrittrice, ma anche pittrice e ritrattista di fama, con sempre pregevole modestia e letteraria bravura, riesce a concentrare in un’unica sequenza di racconti, una varietà di concetti utili a traghettare il lettore da una sponda all’altra dell’umanistico intellettivo fiume del sapere.

Ora accedere alle profondità del misterioso animo umano non è cosa semplice, anzi, direi che è quasi impossibile, tuttavia tra le righe dei racconti che Olga ci propone, sono celati i più svariati e significativi risvolti di vita quotidiana. È compito quindi del lettore, anche il più critico ed esigente: trovarli, capirli e da essi ricavare l’esperienza utile al proprio giornaliero caratteriale fabbisogno.

Ad Olga, quindi…un grande augurio e che questa sua ultima fatica, altro non sia che una delle tante che ancora seguiranno. Dice un vecchio proverbio: “Quando la stoffa è buona l’abito calza a pennello!”

Silvio Sgamma

RACCONTI INVENTATI E POESIE

PARTE PRIMA

IL PAPPAGALLO CONVERTITO

Il Vescovo Mario era egocentrico per natura, aveva un’alta considerazione di sé: era di alta statura, biondo con gli occhi azzurri, senza dubbio un tipo che non passa inosservato. I suoi discorsi si incentravano esclusivamente su argomenti inerenti al suo ministero, parlava di fatti biblici e sembrava che le sue omelie non terminassero mai, dato che in qualsiasi ambito amava sfoggiare la sua cultura religiosa.

Però il troppo storpia, soprattutto quando il contesto non è proprio adatto. A lungo andare, infatti, il prelato risultava pedante perché in ogni luogo, fuori dalla parrocchia, o se era in compagnia di amici o parenti, era sempre lui a tenere la discussione. Se per caso l’attenzione si spostava su qualcun altro argomento o persona, si annoiava, si sentiva a disagio e a volte si infastidiva.

Non brillava nella fantasia e d’altra parte non sarebbe neanche riuscito ad affrontare argomenti se non strettamente legati all’ indottrinamento puro, proselitismo che spesso utilizzava per affermare la sua presunta superiorità, per surclassare (anche se in modo sottile) gli eventuali interlocutori, senza il dovuto tatto, né tanto meno con la dolcezza dovuta.

Viveva in una stupenda villa in stile liberty in una cittadina della Puglia, dove era abbastanza conosciuto. Snobbava i frati e i sacerdoti semplici, per non parlare poi dei sacerdoti missionari che magari non spiccavano “secondo lui” per intellettualità, ma solo per la bontà d’animo. Nutriva addirittura una sorta di invidia nei confronti di taluni referenti della chiesa, o personaggi che brillavano per i loro talenti, quelli che godevano di una certa notorietà non riusciva proprio a digerirli. Era come se soltanto lui avesse importanza e quindi valore. Era servito dalla sua governante, Vanda, un’anziana signora di colore, molto corpulenta e in gamba ed era questa l’unica persona capace di comandarlo a bacchetta.

Termidoro era l’amico fedele, era quello che non lo contestava mai e si lasciava ammaestrare, era un pappagallo, dai colori vivacissimi che gli ravvivava le giornate più tristi e le serate colme di solitudine. Era trattato molto bene e spaziava libero in una grande stanza. Il Vescovo era una persona passionale, se chicchessia lo avesse assecondato nel suo pensiero o se magari gli avesse dato importanza, sarebbe entrato nelle sue grazie, altrimenti, contrariandolo, sarebbe uscito il vescovo fuori dai gangheri e su quella persona sarebbe caduto il marchio indelebile dell’infamia.

Se qualcuno avesse professato un’altra religione o si fosse dichiarato non credente, sarebbe stato considerato un poco di buono o un’anima persa. Il Vescovo Mario dal suo punto di vista credeva che queste ultime persone fossero destinate all’Inferno, naturalmente se non si fossero per tempo convertite. Se prendeva di mira qualcuno che avrebbe voluto convertire a tutti costi, era egli stesso a creargli l’inferno, perché non lo lasciava più vivere. Se la persona in questione gli avesse fatto capire di sentirsi perseguitata…apriti cielo! Il Vescovo avrebbe recitato subito la parte dell'offeso, di chi subisce una mancanza di rispetto, si sarebbe atteggiato da perfetta vittima incompresa, perché per lui la presunzione, era un diritto. Credeva fermamente che la sua insistenza fosse legittima e giustificata da una vera e propria missione salvifica di cui si sentiva investito.

Ovviamente tenendo molto all’immagine sociale, il Vescovo Mario si permetteva di riprendere “le sue pecorelle” soltanto fuori del contesto pubblico o della comunità religiosa, rispetto alla quale teneva a conservare un contegno di facciata integerrimo. Lui perseguitava, è vero, ma soltanto privatamente. Non pensava di avere alcuna affinità con i Testimoni di Geova, i quali usano bussare alle porte e a tutte le ore. Del resto anche questi sono convinti di avere una missione salvifica e perciò guai a contraddirli! Più vengono trattati male, più vengono contrastati nelle loro credenze e più alzano la cresta, arrivando al punto di asserire che il Signore in persona demanda loro l’incarico di diffondere il loro credo. Fanno del vittimismo, sono convinti di essere sulla giusta strada ed è questo che gli dà un motivo in più per perseverare con lo stillicidio che ben conosciamo.

In verità ciò che viene proclamato con insistenza è spesso mascherato con benevola premura, come se l’interesse fosse la salvezza dell’interessato, c’è invece in tutto questo, sapientemente nascosto, uno spropositato egocentrismo e molto spesso una pessima infima cultura di base. Il Vescovo, perlomeno aveva l’intelligenza di capire che per convertire occorrevano altre strategie. Si proponeva infatti solo se si trovava a tu per tu con la persona da convincere, ma il risultato era sempre negativo, perché alla fine era inevitabile che s’innescasse una sorta di litigio, non sopportando che la “prescelta preda” potesse esprimere liberamente il proprio pensiero o tanto meno ribellarsi. In poche parole, dalla discussione ne sortiva tutta la sua prepotenza e arroganza, mentre ad ogni costo l’interlocutore doveva piegarsi alla sua convinzione religiosa e persino alle sfumature di pensiero.

Nessuno poteva saperne più del Vescovo Mario! Nessuno poteva dubitare delle sue teorie e guai perciò a contraddirlo! Non capiva cosa fosse la libertà di pensiero e nel privato non sapeva relazionarsi con gli altri per il semplice motivo che da perfetto narcisista si poneva sempre su un piedistallo. Se si confrontava con qualche cattolico mostrante un pensiero leggermente diverso dal suo, lo bollava subito per eretico. Il Vescovo, oltre alle sue aberrazioni, era molto all’antica, nonostante avesse solo sessant’ anni, di quelli che sarebbero stati disposti a perseguitare chiunque non si fosse piegato verso il pensiero tradizionale della Chiesa. In questa missione di pseudo “custode della dottrina” lui si poneva pertanto in un atteggiamento ricorrente durante la Santa Inquisizione.

Dietro questa palese invadenza si celavano atteggiamenti che rasentavano la persecuzione nei confronti di fantomatici infedeli, dettate da una discutibile ambizione di dominio sugli altri, camuffando abilmente il tutto dietro il ruolo, o per meglio dire la missione di convertire l’ interlocutore al cattolicesimo perfetto attraverso il pensiero e la ragione, per farlo diventare degno del Paradiso. Evidentemente ben poco aveva capito della Rivelazione Evangelica e di quanto concerne la predicazione della “buona novella”, perché la conversione dovrebbe passare prima dal cuore e certamente non può essere imposta con l’arrogante pedanteria, ma contagiata semmai con l'umiltà e con l’esempio.

Aspettava perennemente la telefonata del Papa, pensando che prima o poi il Santo Padre lo potesse chiamare per dargli un appuntamento. Avendogli spedito una sua riflessione in merito alla Santissima Trinità, si aspettava un giudizio o anche un elogio da parte di Sua Santità. La telefonata però non arrivava mai e il bizzarro Vescovo soffriva in silenzio. La sua ambizione di gloria lo consumava dentro, perché con lo scorrere degli anni non vedeva crescere di pari passo la sua importanza e la sua notorietà, si rammaricava perché forse il suo sogno di salire al trono Papale forse non si sarebbe mai realizzato.

Con l’avanzare degli anni, iniziava il Vescovo a dare segni di stranezza: aveva cominciato infatti di ammaestrare il suo pappagallo in modo insolito: voleva istruirlo da un punto di vista religioso, gli metteva davanti il Vangelo e si ostinava a fargli ripetere dei versetti. Anche la badante aveva notato che il prelato iniziava a perdere qualche colpo, ma per paura che per questo fosse rimosso dall’incarico e lei perdere il lavoro, si teneva tutto dentro e tirava avanti come se nulla fosse. Nel frattempo, dopo tanta persistenza, Termidoro era riuscito ad imparare la parola “Amen” ed a recitare la prima parte del Padre Nostro. Il Vescovo si sentiva orgoglioso del suo volatile, ma andava su tutte le furie ogni volta che Termidoro non arrivava oltre ciò che lui pretendeva, senza tener conto che era solo un pappagallo. Sosteneva che il pappagallo era degno di partecipare al rito Sacro e a suo avviso lo riteneva consapevole di quello che diceva, a differenza di tanti fedeli che ripetevano meccanicamente ma senza meditare sulle orazioni recitate.

Tutto ciò era avvenuto grazie alla sua capacità di educare e convertire con fatica il pappagallo, datosi che la famiglia in cui Termidoro era vissuto per alcuni anni, era lontana dalla Fede e dalla pratica religiosa e dove si usava spesso il turpiloquio. Quando costui iniziò ad addestrare il pappagallo, il volatile rispondeva puntualmente con le parolacce, visto che non poteva più rimuoverle dalla memoria. Il padrone lo faceva dormire in una grande stanza con la radio accesa, sintonizzata su Radio Maria, cosicché il pappagallo si era in un certo senso erudito e convertito, ad eccezione però di certi momenti, quando intercalava con qualche inevitabile parolaccia.

La domenica mattina, quando il Vescovo andava in Chiesa per celebrare la Santa Messa, lasciava Termidoro davanti al televisore programmato per l’orario di andata in onda della Messa celebrata dal Santo Padre. A tutte le ore del giorno gli faceva ascoltare meditazioni evangeliche e supporti audiovisivi che andava a comperare a chili alle Edizioni Paoline.

Il suo obiettivo era quello di fargli imparare tutta la liturgia della S. Messa, per saper rispondere come fanno i fedeli. La governante, preoccupata già dall'inizio, si era accorta che lo squilibrio psichico non faceva che progredire, ma nonostante ciò, per convenienza continuava a ingoiare i rospi. Diverse volte il Vescovo urlò contro Termidoro dicendogli: “Non puoi ripetere le cose pappagallescamente, devi cominciare a capire ciò che dici! Secondo me tu le ripeti a memoria, senza conoscere il significato! Che razza di pappagallo sei? E la canzone devi impararla tutta! Che figura farai al concerto di Natale? Tutti devono parlare di noi! Hai capito! Persino i giornali!”

Termidoro ripeteva: “I giornali! I giornali!” Poi intercalava un “Amen e qualche parolaccia, mentre il Vescovo andava su tutte le furie urlandogli: “Quante volte devo dirti che non devi dire parolacce?” La governante da quel momento capì che il Vescovo era seriamente malato di mente. Gli anni avanzavano e probabilmente il processo era ormai irreversibile e prima o poi sarebbe saltato agli occhi di tutti. Il Vescovo non ne voleva sapere, anzi se qualcuno gli parlava di cure, andava in escandescenza, non era consapevole del suo stato, della sua galoppante malattia mentale.

Il giorno di Natale si presentò in Chiesa col suo pappagallo come se nulla fosse. Prima di iniziare la celebrazione della Santa Messa, disse ai suoi parrocchiani: “Anche gli animali sono amati dal Signore! Prendiamo esempio da San Francesco che parlava con gli animali e con gli uccelli …! Vi presento Termidoro, il mio carissimo nonché fedele amico, che è stato da me educato e istruito, quindi è degno di essere il mio pappagallo, soprattutto di partecipare alla Santa Messa e per finire, canterà per la gloria del Signore e la gioia di tutti voi”.

I fedeli rimasero stupiti e increduli e qualcuno si mise anche a ridere. Durante la celebrazione Termidoro ripeteva qualche parola, intonando delle canzoni religiose, suscitando anche interesse e fascino. Verso la fine della Santa Messa qualcosa non andò però secondo il programma: Termidoro fece i suoi bisogni sul vestito bianco di un chierichetto, mentre i parrocchiani, schifati, iniziarono a commentare e come se non bastasse pronunciò una parolaccia che risuonò per tutta la navata. I parrocchiani uscirono dalla Chiesa un po’ divertiti, un po’ indignati, un po’ stupiti. Da quel giorno non si fece altro che parlare del Vescovo Mario, di Termidoro e dello strano episodio. Tanti provarono commiserazione nei suoi confronti, consapevoli che qualcosa di molto strano aveva compromesso lo stato di salute mentale del povero Vescovo.

Passò circa un mese e il prelato ricevette una lettera proprio dal Papa. Lui urlò dalla gioia: “Vanda! Vanda! Mi ha scritto il Papa! Il Papa! Finalmente Dio ha esaudito le mie preghiere! Il Papa!” Ecco le testuali parole: “Preg. mo Vescovo Mario, dopo avere ricevuto da diverse fonti notizie sul suo critico stato di salute mentale, la esorto gentilmente, per il suo bene e per il bene della collettività, a farsi fare dei controlli clinici ed eventualmente a farsi ricoverare presso un Centro di igiene mentale. Pertanto fin quando non guarirà, è pregato, come Dio comanda, di lasciare il suo Ufficio Pastorale. Le prometto che la ricorderò nelle mie preghiere. Dio la benedica. La saluto in Cristo.

Sua Santità.” Il poveretto rimase di ghiaccio, poi svenne. Termidoro intanto ripeteva: “Il Papa! Il Papa! Poi canticchiava un motivo religioso e ripeteva: “Il Papa! Il Papa!” Sembrava euforico più che mai e alternava le parole religiose, intercalando qualche parolaccia. “Viva il Papa! Viva il Papa! Ave Maria!…”

Illustrazione dell’autrice



COMMENTO DI SILVIO SGAMMA

Ancora una volta, nel suo sottinteso, Olga ha voluto darci dimostrazione di saggezza e di capacità intellettuale. Ha scritto una favola, una come tante altre diranno i lettori, senza dubbio una bella fiaba, simpatica, allegra, semplice da capire…questo diranno molti non attenti letterati anche provetti critici. Un Vescovo ed un pappagallo, un bel narrativo connubio, un’amena fantasiosa scenetta, una pagina da voltare e depositare nel cassetto del mentale dimenticatoio, dopo breve e conciliante lettura…così sembrerebbe a primo avviso, ma la realtà però non è quella che tanto semplicemente appare. Una favola innanzi tutto, come un qualsiasi romanzo, anche nella sua brevità ha un inizio, un corpo centrale ed un finale che è poi la morale pilastro del racconto stesso.

Questa teoria da tradurre in pratica ce la insegnano Esopo, Esiodo, Fedro e tanti altri favolisti anche del passato. L’eclettica artista Olga questo lo ha capito e con magistrale bravura lo ha messo in pratica. Leggere, riflettere, entrare nel vivo di volata, è importante, è indispensabile. Io ho cercato di farlo e spero di esservi riuscito. Provino a fare altrettanto il resto dei lettori…il racconto di Olga non è solo una favola da raccontare ai piccoli, ma è invece una verità tra le righe soprattutto per i grandi… astutamente celata. Altro non mi resta che augurare buona lettura e perché no? Anche in questo caso aggiungere un meritato complimento: Brava Olga…Grazie!

IL MATRIMONIO OCCULTATO

Ogni riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale. I fatti si svolgono in una località della Calabria, benché come si sa, le bizzarrie umane siano reperibili in qualsiasi parte del Mondo, motivo per cui anche la scelta di questa regione nel racconto resta un particolare non determinante. Mancano due mesi al fatidico giorno delle nozze. I futuri sposi, Giulio e Carmen, entrambi trentenni, sono affaccendati per poter completare gli interminabili preparativi e adesso devono preoccuparsi degli inviti da spedire alla parentela allargata e gli amici. Ma non proprio a tutti! È qui il punto: Giulio, col consenso della propria famiglia, ha stabilito per motivi suoi personali, di non invitare una famiglia di amici intimi e un’altra di parenti stretti.

La prima famiglia perché considerata di ceto troppo umile, mentre la seconda perché il figlio, Nino, era portatore di handicap psichico. In verità, era questo un giovane innocuo e rispettato da tutti, l’unica cosa che in lui un po’ stonava, erano le frasi che a volte pronunciava in modo inopportuno e con l’innocenza di un bambino. In genere la cerimonia del matrimonio religioso è caratterizzata dalle cosiddette pubblicazioni, per il motivo ben risaputo che nessuno dei due contendenti possa risultare già impegnato in altri legami e rendersi nel contempo l’unione in atto pubblico.

Ma i futuri sposi, a dispetto di tradizioni e leggi, fecero una cosa del tutto inusuale e tutto allo scopo di non far giungere la notizia alle due famiglie menzionate. Ogni particolare riguardante l’approccio degli invitati alla cerimonia, era prescritto singolarmente a chiare lettere nelle partecipazioni recapitate loro. “Per motivi di “privacy” gli invitati che intendono partecipare alla cerimonia, dovranno aderire alle seguenti condizioni:

1 - Uscire di casa senza informare nessuno sulla loro destinazione. 2 - Tenere i cellulari spenti durante il trattenimento, per non dare adito di partecipazione estranea ai festeggiamenti del matrimonio. 3 - Una volta letto l’invito, distruggerlo (possibilmente bruciarlo) e dare conferma per telefono. 4 - Non riprendere con foto, con filmati di gruppo e soprattutto non riprendere le immagini degli sposi. 5 - Ovviamente non pubblicare in proposito commenti, video o immagini sui social.

Uno degli invitati, innervosito e indignato per l’enorme macchinosità della procedura prescritta, non strappò l’invito e tanto meno telefonò per dare conferma, mentre in cuor suo già tramava qualche scherzo da fare. Arrivò il giorno fatidico ed oltre ad una gioiosa espressione di circostanza, tra gli invitati non si nascondeva una sorta di apprensione, probabilmente dovuta al timore di sbagliare qualcosa, di trasgredire a qualche prescrizione e quindi non risultare graditi agli sposi. Molti in cuor loro criticarono le modalità della cerimonia in atto, ma non volendo compromettere i rapporti con gli sposi, preferirono non esternare le private perplessità. Si sforzavano piuttosto di immaginare quali motivazioni tanto gravi e imperdonabili avessero potuto scatenare una tale decisione, senza riuscire a trovarne nemmeno l’ombra.

Gli sposi, di comune accordo, avevano scelto come officiante un giovane cappuccino, missionario in Ciad. Non lo conoscevano bene, ma lo avevano preferito per via della bella presenza ed anche perché dotato di forte empatia. La cerimonia religiosa ebbe inizio con l’ingresso della sposa, con il suono dell’organo, mentre la Chiesa era rivestita di addobbi floreali e illuminata a giorno. I parenti si erano tutti affrettati a occupare i primi posti davanti della navata. Tutti dritti e ordinati come un plotone militare. In quel giorno la liturgia prevedeva il famoso passo del Vangelo in cui Gesù era tra i pargoli.

Il frate iniziò la sua pregnante omelia, collegando il lieto evento del giorno alla parabola del Vangelo, spiegando che in fondo quella di Gesù coi pargoli era solo una metafora, perché il Signore non voleva alludere soltanto ai bambini, ma a tutti quelli che per i motivi più svariati potremmo essere indotti ad escludere. Sottolineò con insistenza che l’essere cristiani ed in particolare, contrarre il matrimonio cattolico cristiano, non può rimanere un fatto strettamente privato, ma utile a coinvolgere ogni nostro rapporto sociale e trascendentale. Fece anche riferimento a un altro ammonimento evangelico in cui si raccomanda a chiunque si accosti alla Casa del Signore, di andare prima a rappacificarsi col fratello.

Giulio, che un attimo prima stava impersonando la parte del festeggiato, con quella omelia così scomoda e calzante al suo caso, tanto da sembrare rivolta a lui personalmente, si sentì quasi un imputato e non riuscendo a nascondere un certo imbarazzo, iniziò a tossire istericamente come a voler coprire le parole del frate, ma l’amplificazione funzionava benissimo e mentre la predica fluiva, tra gli invitati, corse qualche bisbiglio di dubbioso commento. Una volta in sala, tra i partecipanti al trattenimento, gioviale e socievole arrivò anche il frate.

Datasi la sua natura un po’ sbadata o forse perché gli sposini non lo avevano avvisato in tempo, dimenticò nell’occasione di spegnere il suo cellulare e così nel bel mezzo del trattenimento si udì per tutto l’ambiente lo squillo di una soneria… fu il panico generale e nella sala improvvisamente piombò il silenzio. Istintivamente i presenti alzarono le braccia per discolparsi e puntualizzarono in coro: “Non è il mio! Non è il mio!” Gli sposi concentrarono subito i loro sguardi minacciosi e severi nella direzione del suono, ma il frate, brillante come sapeva essere, improvvisò una piccola ma necessaria bugia, malgrado fossero soltanto le prime ore del pomeriggio, riuscì a salvarsi dall’imbarazzo rispondendo:

“Sono in pizzeria, c’è troppo frastuono e non posso parlare, ti richiamo io stasera!” D’un tratto tornò la calma che comunque non durò a lungo, perché era il momento della torta e davanti al locale arrivò un furgone. Era il dipendente del servizio Catering che doveva consegnare l’atteso dolce nuziale. Era sceso e stava per aprire il portellone, quando prontamente venne intercettato dal genitore dello sposo, che lo riconobbe, era proprio il figlio del vicino di casa di una delle famiglie non invitate.

Subito gli intimò di risalire sul furgoncino e che al posto suo sarebbero stati i camerieri del locale a portare la torta in sala. Il giovane rimase allibito, visto che indossava l’apposito frac ed era stato pagato per il servizio e non si spiegava il perché di quanto stesse accadendo. Immediatamente il padre dello sposo, affiancato dagli altri due figli, telefonò al responsabile del Catering, protestando energicamente e chiedendogli spiegazioni per non aver rispettato l’accordo preso, ovvero di non mandare assolutamente quel dipendente. Il responsabile si giustificò, dicendo che era rimasto a corto di lavoranti, perché alcuni erano in malattia.

Il genitore dello sposo era ancora furibondo e non sentiva ragioni. Continuava a rimbrottare che quel ragazzo non doveva sapere niente della cerimonia, per nessun motivo. A quel punto il gestore non resistette più e non poté fare a meno di domandare quale fosse il problema, visto che di un trattenimento nuziale si trattava e non certo del raduno di una loggia massonica. Ribatté il padre di Giulio, ancor più esasperato e alterato, tradendo quella rigida segretezza che avrebbe dovuto rispettare e gli uscì di bocca il particolare che quel matrimonio sarebbe dovuto rimanere segreto per alcune famiglie di parenti e amici non invitati e guarda caso il ragazzo era il vicino di casa di una di queste.

Il gestore annuì come se avesse capito il problema, ma in effetti non afferrò granché del senso, rimase perplesso e tacque. La festa volse al termine e giunse il momento delle bomboniere e dei confetti. Quando gli invitati aprirono i cofanetti, non c’erano né i nomi degli sposi, né la data, ma due semplici frasi: “Grazie per la partecipazione…agli sposi piace la riservatezza”.

All’indomani dello sposalizio, l’invitato che si era rifiutato di partecipare si concesse una specie di piccola vendetta che aveva meditato già da prima. Tartassò di domande imbarazzanti gli invitati di sua conoscenza, mettendoli in difficoltà e per saggiarne le reazioni. Con le risposte che ricevette ci fu da sbellicarsi per le tante frasi evasive e sfuggenti, come se in quella partecipazione si fosse celebrato un patto di sangue.

Andiamo indietro nel tempo. La madre di Giulio, Anna, aveva contratto il suo primo matrimonio con un certo Giovanni, persona molto facoltosa e di molti anni più anziano di lei. Durante il tempo vissuto insieme non ebbero figli. Dopo circa cinque anni lui si ammalò e Anna trovò consolazione in un certo Michele. In seguito a questa frequentazione segreta la donna concepì un bambino. Venne alla luce Giulio e il marito di Anna per qualche mese ebbe la gioia di godersi quello che lui reputava il tardo frutto del suo amore con Anna. Dopo qualche mese però Giovanni, a causa della grave malattia morì. In seguito alla perdita del marito, Anna continuò a frequentare Michele ed entro l’anno si unirono in matrimonio.

Giulio crebbe sano e bello. Secondo l’opinione della gente, quel figlio doveva essere nato dal primo matrimonio, mentre in base a come si erano svolti i fatti, lui era figlio naturale di quello che sarebbe diventato il secondo compagno della madre e ciò era comprovato anche dalla spiccata somiglianza che man mano si evidenziava tra Giulio e Michele. Questo figlio crebbe tra mille attenzioni ed esagerate cure. Da parte dei genitori gli venne concesso di tutto e di più, in particolar modo da parte del padre naturale. Nella storia un po’ complicata, si prefigurarono diverse verità o per meglio dire tanti livelli di personali congetture. Noi conosciamo i fatti, ovvero come si erano realmente svolti, malgrado ciò presso la gente sopravviveva però un’opinione diffusa, secondo cui il bambino doveva essere attribuibile al primo marito. Questa stessa convinzione tutelava anche l’onestà morale della madre, della quale nessuno sospettava.

Esisteva poi quella fragile verità che risiedeva nella convinzione di Giulio, il quale credeva di essere frutto del secondo matrimonio, mentre in effetti era stato il figlio di una relazione illegittima, sanata in seguito col secondo matrimonio. Il disguido era tutto lì: nella data in cui era stata celebrata la seconda unione. Al bambino veniva celata questa incongruenza di tempi, in base ai quali teoricamente lui non sarebbe potuto nascere prima che mamma avesse sposato Michele, anche perché prima di tal matrimonio, mamma non era nubile, bensì già unita con Giovanni.

Anna e Michele, custodi di due verità, amministravano queste due versioni dei fatti: una per il figlio e una per l’opinione pubblica. Questa doppiezza faceva nascere in quei genitori un senso di colpa nei confronti del figlio, con il quale tendevano ad essere più permissivi, come per farsi perdonare qualcosa, facendolo crescere capriccioso e viziato. Dopo alcuni anni, Anna diede alla luce due gemelli omozigoti somiglianti perfettamente alla madre e da questo contrasto di fisionomie si evidenziava ancora di più la forte somiglianza di Giulio col padre, cosa che suscitava nella gente i vecchi e rinnovati dubbi.

I genitori dal canto loro nutrivano giustificati timori che prima o poi qualcuno potesse rivelare al figlio la verità da sempre tenutagli nascosta, per questo motivo erano sempre timorosi e tenevano sotto controllo ogni suo movimento o contatto con persone comuni del paese o parenti che fossero. Oltre alla storia per la sua origine tanto intrigata di misteri e segreti, chi l’avrebbe mai detto che adesso il matrimonio di Giulio sarebbe stato occultato? Sembrava quasi un segno del destino, una sorta di karma per via del quale la sua vita dovesse per forza essere sempre contrassegnata da celate verità. Ma poi era valsa la pena il creare una simile macchinazione? Il gioco era valsa la candela? Era come se Giulio avesse voluto colpire una mosca con un cannone!

Sarebbe bastato semplicemente inviare una partecipazione che non implicasse l’invito per salvare la faccia, se non altro per non risultare offensivi e sprezzanti, come invece era accaduto. La decisione “selettiva” avrebbe potuto far pensare a molti, che, dal punto di vista di Giulio, avere un figlio disabile avesse potuto rappresentare un qualcosa di antiestetico e quasi di disonorevole, un “difetto” da dover nascondere, per cui il ragazzo sofferente meno si fosse visto in giro, meglio sarebbe stato, onde non sfigurare agli occhi della gente. Altrettanto dicasi per l’altra famiglia esclusa, discriminata per motivazioni legate al ceto sociale, come se a questo mondo debba esserci posto solo per gente danarosa o colti laureati. Giulio non aveva fatto altro che evidenziare la sua grettezza, povertà di sentimenti e limitatezza di apertura mentale.

A guardare bene cosa facesse sentire Giulio lontano dalla famiglia col figlio disabile, in fondo non era soltanto quel particolare considerato “antiestetico”. La sua famiglia lo aveva educato in base a criteri rigidamente selettivi, in base ai quali la considerazione dei soldi e del prestigio erano preponderanti. In realtà le origini passate della famiglia dei suoi nonni erano umili, anche se poi i rispettivi figli avevano studiato e conquistato una discreta posizione economica, ma l’indole superba non è necessariamente collegata al ceto sociale.

Proprio in virtù del suddetto criterio, nonché di una presunta saggezza posseduta, in più di un’occasione, la famiglia di Giulio si era spinta oltre il limite dell’ingerenza, arrivando ad esortare la famiglia di Nino, affinché lo internassero in qualche Comunità, per evitare alla parentela quello che a loro avviso rappresentava un disonore. Fortunatamente questi suggerimenti inopportuni, non vennero mai ascoltati né presi in considerazione dagli interessati. Lasciarono soltanto amarezza nei genitori di Nino, mentre verso la famiglia di Giulio furono ulteriori motivi di chiusura rapporti. Attraverso tali atteggiamenti si manifestava benissimo questo senso di presunzione, quella di sentirsi sempre in diritto di giudicare tutto e tutti.

Crescendo, il ragazzo aveva sempre fatto tesoro di critiche e note di biasimo dei genitori, come succede spesso, i figli sono la riproduzione amplificata, nel bene o nel male, di quanto assorbono in famiglia. Se vogliamo dirla in due parole, Giulio aveva incarnato l’esagerazione dei difetti caratteriali dei suoi genitori. Ovviamente prima o poi, la verità viene a galla, perché come si suol dire, “il diavolo fa le pentole ma non i coperchi”. I parenti e gli amici esclusi infatti vennero informati del matrimonio già avvenuto, proprio da quell’unico “obiettore”, quello che si era rifiutato di partecipare alla festa nuziale, perché non voleva sottostare alle condizioni ridicole imposte, mostrando a chiunque persino la “prova”, cioè l’invito bizzarro.

In verità non ci sarebbe stata la necessità di macchinare tutta quell’assurda e banale messa in scena, che si rivelò superflua dal momento che la famiglia modesta stava combattendo un problema di salute, per cui non avrebbe potuto mai accettare l’invito, mentre la famiglia dei parenti già allontanati, invece, non si sarebbero neanche aspettati l’invito, dato che ultimamente, da quando Giulio si era fidanzato, non li salutava più, evidenziando il distacco. E anche se per assurdo avessero ricevuto un invito proforma, probabilmente non avrebbero accettato, per il motivo che non si sentivano da tanto tempo considerati. Al massimo avrebbero partecipato con un regalo. Tutti gli invitati che acconsentirono al patto, tranne qualcuno mentalmente più aperto, forse solo per paura, mantennero la promessa di segretezza, rimanendo nella loro posizione omertosa anche in seguito, come fanno quei soldati fedeli che rimangono a difendere la loro postazione, anche dopo la fine della guerra.

Passarono alcuni anni e quando già quelle famiglie escluse al matrimonio non facevano neanche più caso all’accaduto, capitò che Giulio per motivi futili interruppe le relazioni con altri componenti della parentela di sua moglie. Il suo carattere in fondo era quello: non perdonava mai niente a nessuno, così il tempo che è medico e sana molte ferite, diventò anche maestro e fece capire un po’ alla volta anche alla rimanente parentela che Giulio era di indole fredda e molto concentrato su di sé e sulla sua realizzazione.

Fu così che un po’ alla volta non fu più lui ad allontanare gli altri, ma viceversa furono gli altri a trattarlo un po’ alla volta sempre con maggiore distacco. Forse era proprio la solitudine e l’isolamento la collocazione a lui più congeniale; una vita tutta dedicata alla carriera, dove i rapporti di lavoro avrebbero rappresentato le uniche relazioni umane.

IL PROTAGONISMO DEGLI IGNAVI

Ogni riferimento a persone o fatti reali è puramente casuale. Carla, artista completa, si era affermata nel campo della pittura ed in quello della musica, era stata infatti una valida violinista, oltre che un’eccellente pittrice. Aveva avuto la fortuna di vivere delle sue risorse, organizzando frequenti mostre e concerti. Oltre alle gratificazioni artistiche ottenute, era ora una bravissima insegnante di musica. Viveva in una spaziosa ed elegante villa d’epoca. Carla purtroppo fu sfortunata, tanto da rimanere vedova in giovane età. Ebbe due figli: Sonia e Giovanni e la vita non le risparmiò le continue sofferenze che si sarebbero susseguite. Giovanni, essendo molto fragile, a causa di brutte compagnie, intraprese la via della droga.

La vita di Carla fu costellata da lunghi periodi di sofferenza. Giovanni, dopo aver conseguito il diploma, non si impegnò mai in un qualsivoglia lavoro, approfittando del benessere economico della madre che, essendo buona d’animo, non aveva il carattere e l’autorevolezza per imporre la propria volontà. Era istintiva e molti, proprio a causa della sua generosità ne approfittavano per avere la meglio sulle sue decisioni, quindi a maggior ragione, veniva sottomessa dal proprio figlio. Carla non volle mai ammettere questa sua debolezza, spacciando il suo limite per pregio e definendolo amore cristiano. Era anche molto permalosa e presuntuosa. Soffriva inoltre di una sorta di complesso di inferiorità, ovvero di non essere abbastanza apprezzata per la sua intelligenza e cultura. In effetti era colta e intelligente, ma non possedeva minimamente il senso pratico, era sempre fra le nuvole … svanita.

La donna era anche molto critica e intransigente con la figlia Sonia, che aveva sempre dovuto contare sulle proprie forze, quasi come se la madre lei non l’avesse mai avuta. A dire il vero, aveva avuto un ottimo rapporto fin quando era rimasta in casa con lei, ma da quando si era sposata per andare a vivere con l’uomo della sua vita, il rapporto era cambiato. Carla non accettò il distacco inevitabile e si considerò abbandonata dalla figlia, troppo presto diventata adulta.

Aveva sposato un bravo medico spagnolo e si erano trasferiti a Madrid, dove aveva conquistato un prestigioso lavoro, per cui non pensava minimamente di trasferirsi nel suo paese di origine. Carla era molto generosa con Giovanni, pur consapevole che con lui sarebbe stato tempo e denaro sprecato. Aveva un braccio corto per la femmina ed un braccio lungo per il maschio. Usava in poche parole due pesi e due misure. Viveva in simbiosi con Giovanni, nonostante avesse un carattere pesante e la dipendenza dalla droga. Lei in fondo era consapevole del rischio di subire violenza dal figlio qualora non lo avesse accontentato in tutto. Il pericolo era reale, dato che in certi momenti questi non era governato dalla ragionevolezza e diventava oltremodo prepotente, ma nonostante tutto la madre lo compiangeva e lo amava più della sua stessa vita.

Lo giustificava sempre e pur di vederlo vicino a lei, non pensava assolutamente di collocarlo in una Comunità che avrebbe dovuto accoglierlo per aiutarlo ad uscire fuori da quella terribile dipendenza. Tante volte Sonia consigliava alla madre di fare qualcosa di concreto per Giovanni, che lo portasse a disintossicarsi, ma la madre che non era capace di staccarsi da lui, faceva orecchie da mercante, anzi entrava in contrasto con lei, accusandola persino di cattiveria. “Come puoi pensare che io possa separarmi da lui? Abbi un po’ di comprensione! Tuo padre non c'è più, tu sei sposata e Giovanni è tutta la mia vita! Mi rimane lui e i miei adorabili animali che non mi contraddicono mai!” La casa, a causa del disordine e della poca igiene, era diventata qualcosa di disdicevole. Giovanni morì di overdose all'età di trent'anni.

IO NON TI CONOSCO

Sonia, durante il periodo universitario, conobbe Silvana, una ragazza di bella presenza, colta, loquace, abbastanza simpatica; tramite Sonia, entrò nelle grazie della sua famiglia. Essendo persone benestanti, di tanto in tanto, dopo la morte di Giovanni la invitavano a trascorrere alcuni giorni nella loro residenza estiva in montagna. Col passar del tempo, la madre di Silvana, molto assiduamente si recava a casa di Sonia per cercare di stringere i rapporti con Carla (senza nemmeno un preavviso) tanto da suscitare in lei e nella figlia un certo sospetto, soprattutto, perché la strana donna non aveva nulla da spartire con loro, era una persona piuttosto rozza, a differenza di Silvana che era abbastanza raffinata.

Non era certamente accattivante e soprattutto non sembrava una persona sincera. Quasi tutti i pomeriggi bussava alla porta nei momenti più inopportuni e si metteva a chiacchierare con Carla, anche se in effetti non esisteva un vero e proprio dialogo, la conversazione infatti era a senso unico: la signora raccontava solo lamentele, probabilmente era un modo per attirare l’attenzione e soprattutto per compiangersi. Ma per quale motivo? Carla si sentiva a disagio ed essendo una persona troppo delicata, oltre ad essere una sensibile artista, le sembrava male non farla entrare, anche se, come sappiamo, il troppo storpia. Sarebbe bastato infatti, semplicemente che le avesse fatto capire di presentarsi a casa sua di tanto in tanto e soprattutto con un preavviso, non in modo così assiduo, tanto più che era impegnatissima, ma Carla, essendo molto cocciuta e presuntuosa, non dava retta alla sua saggia figlia che non faceva altro che farglielo notare.

In verità, se da un lato Carla avrebbe avuto voglia di allontanare la donna, da un lato non aveva il coraggio di farlo, perché si trattava della mamma di Silvana, a cui ormai era ormai particolarmente affezionata. Un giorno Carla e Sonia vennero a conoscenza di un fatto sconvolgente: il fratello di Silvana era uno spacciatore di droga, proprio la categoria di persone che più odiavano, datosi che Giovanni era morto di overdose. Probabilmente sarebbe stato il caso di allontanare Silvana e a maggior ragione sua madre che già si manifestava in modo molto invadente. La signora non faceva altro che adulare madre e figlia e puntualizzare che avevano un cuore grande.

Discutendone, tutto sommato le due donne pensavano che non era il caso di allontanare Silvana, dato che lei non aveva nulla a che fare col fratello, per cui non sarebbe stato giusto emarginarla. In effetti Sonia si sentiva affettivamente legata a lei, per cui soffrì un po' per questa situazione imbarazzante. Esisteva infatti una profonda stima reciproca, quindi non pensava affatto di allontanarla. Del resto suo fratello nemmeno lo conoscevamo, viveva da solo in un posto lontano. Adesso però la madre incombente e non solo per la sua statura fisica, prendeva sempre più piede, dato che avevano scoperto che era pure menzognera!

Ne avevano avuto la prova quando un giorno durante una passeggiata, aveva chiesto dei soldi in prestito a Sonia e dopo un’ora aveva avuto il coraggio di chiederle la stessa cifra, cercando di farle credere che glieli avessero rubati. Che sfacciataggine! La donna voleva approfittare della sua generosità e bontà d’animo, infatti non le restituì mai il denaro. Non sapeva però che dietro l’aspetto più bello che lei conosceva di questa persona, si nascondeva un altro aspetto che si sarebbe manifestato in futuro, al momento opportuno. Ebbene, nonostante Sonia avesse messo in guardia sua madre da questa donna, lei continuava ad accoglierla come se nulla fosse e si giustificava, sostenendo che non avrebbe potuto allontanarla, per rispetto della figlia che ero molto affabile e simpatica.

Sta di fatto che la signora indesiderata tornava a casa sempre soddisfatta, non solo per quella mezzora che le era stata dedicata, ma soprattutto perché se ne andava spesso col suo sacchetto pieno di roba da mangiare, che Carla generosamente le donava. La signora non era però poi messa così male, dato che il marito era un impiegato regionale e potava mantenere la figlia agli studi e pativa persino il disonore di avere un figlio spacciatore. Il peggio deve ancora arrivare!

Silvana dopo un po’ di tempo si era presa troppa confidenza e, approfittando del fatto che Sonia dopo il suo matrimonio si fosse trasferita a Madrid, adesso avanzava pure delle pretese, come ad esempio era arrivata a chiedere la macchina in prestito e credeva di poter intrufolarsi a casa sua in modo più agevole e più astuto. Un giorno Silvana subì un tamponamento con la macchina e non si degnò nemmeno di risarcire i danni, ma quando Sonia ordinò a sua madre per telefono di non prestarle più la sua automobile e lei lo riferì a Silvana, la ragazza andò su tutte le furie, perché a suo avviso, sarebbe stata una mancanza di rispetto nei suoi confronti, dato che pretendeva di usare tutti giorni la macchina, come se fosse di sua proprietà, poiché essendo abituata a ricevere questo favore, la sua arroganza le faceva credere che ormai le spettasse di diritto.

Ma con quale pretesa?! Finalmente Silvana non si fece più viva, ma il danno maggiore lo avrebbero subito in seguito da sua madre, quella donna che adulava in continuazione madre e figlia, parlando sempre di carità e dell’amore cristiano, quell’arpia che aveva sin dall'inizio suscitato tanta perplessità e che adesso lasciava trapelare attraverso quella maschera che si portava addosso. Passarono diversi anni quando avvenne il “colpo di scena”. Carla comunicò a Sonia che la sospetta signora, con il solito suo vittimismo e con la suggestione, era riuscita a farsi firmare degli assegni per l’importo di cinquemila euro. Si era approfittata di un'anziana indifesa e sicuramente molto ingenua.

La donna non restituì mai il denaro e Carla non sporse nemmeno denuncia. La marpiona comprò alla figlia un’automobile e così, con tanta amarezza e delusione, terminò definitivamente la storia della loro amicizia, che evidentemente da parte della discussa famiglia non era mai esistita, ma era semplicemente architettata e basata sull’opportunismo, infatti non misero mai più piede in casa di Carla. Trascorsero alcuni mesi dopo che la misteriosa aveva raggirato Carla, quando a Sonia, a Madrid, arrivò un' inaspettata lettera da Silvana. La lesse e provò tanta rabbia dopo essere stata a conoscenza di tutte le sue “dovute giustificazioni” per il suo comportamento e per quello di sua madre. In quella lettera non esisteva alcun termine come: “Scusa” o “Perdonateci”, ma solo la pretesa e la presunzione di essere comprese da parte di Sonia e di sua madre.

A quel punto Sonia si sentii non solo buggerata, ma tradita da una persona che reputava una delle sue migliori amiche e per lei l’amicizia era sacra, per cui non era ammissibile giocare sui sentimenti umani! Soprattutto capì per tutti quegli anni che lei aveva avuto a che fare con una persona che non era mai esistita, perché l'aveva idealizzata, in quanto la sua vera natura era ben diversa da come l'aveva immaginata. In tutta questa faccenda ciò che l'addolorò maggiormente, non fu tanto la perdita economica che subì sua madre, quanto la consapevolezza di aver perduto una persona che per diversi anni aveva voluto bene quasi come una sorella, deponendo in lei tutta la sua fiducia, per cui la consapevolezza che Silvana si era rivelata una persona arrogante e prepotente, le aveva fatto crollare la falsa opinione che aveva costruito sul suo conto.

Silvana aveva distrutto il castello di sabbia che aveva costruito. Nella lettera infatti non si scusava assolutamente per tutto ciò che era successo, ma giustificava il suo agire come pure il vile gesto della sua mamma che aveva ingannato sua madre, derubandola e giustificandola, perché a suo avviso lei aveva bisogno di quei soldi. Guarda caso la donna non aveva mai voluto lavorare. Persino quando Carla si era rotta un braccio, non era fatta viva nemmeno per una doverosa visita di cortesia. Sonia, dopo aver letto quella lettera, rimase sconcertata e tanto fu sufficiente per farle capire con chi aveva avuto a che fare per tutto quel lungo periodo. L’istinto fu quello di rispondere a tono a quella lettera, ma preferii non scriverle per non rischiare di essere offensiva.

Il fatto di non avere avuto mai la possibilità di manifestare il suo pensiero a Silvana, nel suo cuore nutriva un forte sentimento di rancore che la indusse a fare un sogno ricorrente, per tre volte, a distanza di anni, tanto da diventare infine realtà. Sognava di trovarsi a Capri insieme a suo marito, quando all’improvviso, incrociava lo sguardo di Silvana che si fermava, la guardava e la salutava: “Ciao Sonia!” Lei rispondeva: “Chi sei? Non ti conosco!” Il sogno si ripeté dopo circa un paio d’anni e ne rimase tanto impressionata, soprattutto per le identicità delle sequenze.

Dopo alcuni anni, finalmente il sogno si concretizzò: Sonia si trovò in vacanza a Capri e guarda caso, per le vie dello stesso luogo che aveva sognato. Le venne incontro Silvana, che le se rivolte con un saluto: “Ciao Sonia!” Sonia rispose freddamente (per educazione) e mimò la parte: “Chi sei? Come fai a conoscermi?” “Come, non ti ricordi di me? Sono Silvana!” “Mi devi scusare, ma io non ti conosco!” Silvana sbiancò e continuò: “Mi hai anche ospitato nella tua casa di villeggiatura! Non ti ricordi? Ho tanti bei ricordi di te!” “Che strano, io non mi ricordo affatto di te!”

A quel punto si rivolse a suo marito con il quale si erano visti varie volte in passato ed aveva partecipato persino al loro matrimonio. L’uomo, conoscendo le intenzioni di Sonia, dovette fingere anch’esso di non conoscerla e disse: “Nemmeno io ti conosco!” Silvana a quel punto dovette arrendersi, fece dietro front come un cane bastonato. Era in compagnia di un uomo che rimase molto perplesso. Per non essere scortese, Sonia la salutò con molta freddezza, ma consapevole di averla ferita nel suo orgoglio, quello stesso che aveva rotto la loro “amicizia”, o probabilmente questa, da parte sua non era mai esistita.

Sonia dovette fare violenza a sé stessa, perché non sapeva fingere, anche se era molto brava a recitare era sempre spontanea, calorosa e sincera. Esisteva un senso a tutto ciò, il messaggio che avrebbe voluto comunicarle era: “Io non conosco quella Silvana che nel tempo si è rivelata, ma ho conosciuto una Silvana a cui ho voluto tanto bene, ma che in realtà non era lei, quindi non la conosco!”

Nella bizzarra faccenda, Sonia aveva anche perdonato alla sua “amica”, anche se solo in sogno. Sognò infatti di abbracciarla con tanto affetto. Nella realtà però avrebbe dovuto darle un forte segnale, affinché lei prendesse consapevolezza dei propri errori, dato che Silvana non si era posta nella condizione di farsi perdonare, non avendo manifestato segni alcuni di pentimento. Nel vero, chissà che non si fosse ravveduta e... ma Sonia sperava almeno in un esame di coscienza.

Da quel momento “però” il rancore svanì, forse dentro di sé l’ aveva anche perdonata nel suo cuore, ma con la speranza di non avere più a che fare con persone di quel tipo. Tuttavia nemmeno Sonia arrivò mai a pentirsi della sua stessa inconsueta reazione. Non è stata una vendetta (non è nella sua indole), l'intento era quello di darle semplicemente una lezione di vita.

LA SANTA CON LE CORNA

Un giorno Carla, in occasione di una sua mostra personale, incontrò una donna sui quarant’anni. Fu colpita dalla sua affabilità, parlantina e che padroneggiava un linguaggio della lingua italiana, tanto che l'anziana artista ne fu affascinata. Tra l'altro Carla aveva un punto debole: si lasciava suggestionare facilmente dalla bellezza estetica delle persone (essendo ella stessa un'esteta per eccellenza) e dalla cultura. Filomena fu ingaggiata da una conoscenza di Carla per dedicare ai suoi quadri una presentazione e ci riuscì molto bene. La donna, critica d'arte, in realtà era un avvocato, ma si dedicava alle presentazioni di qualche esposizione artistica, probabilmente anche per mettersi in mostra. Era una perfetta oratrice.

Ebbene, Filomena, dopo aver elogiato in pubblico l'artista, cercò di approfondire la conoscenza con la stessa e quando Carla le parlò delle opere missionarie di cui si occupava, in quanto aveva deciso di donare la metà del ricavato ad un'Associazione Umanitaria, le brillarono gli occhi. In un attimo venne fuori tutto il suo entusiasmo, l'esuberanza che fino a quel momento aveva accantonato, prese il sopravvento. Filomena la riempì di complimenti in modo spropositato e iniziò ad usare questa frase: “Questo è un momento di grazia! Il Signore ci ha fatto incontrare; è da dieci anni che io sostengo una missione del Ciad. In pratica raccolgo dei fondi per donarli ad un amico sacerdote missionario che conosco di persona. Lui è italiano, ma vive da tanto tempo in Ciad. è una persona santa. Se ti fa piacere, io collaborerò con te, ti organizzerò le mostre e i concerti e tu mi aiuterai a raccogliere dei fondi per questo missionario, così sfameremo tanti bambini, ma ne parleremo meglio”.

Decise di prendere un appuntamento con Carla a casa sua, perché avrebbe dovuto approfondire l'argomento con l'artista e non solo, farle vedere tutto il materiale in merito all'Associazione e persino visionare un DVD che riguardava il villaggio del Ciad in questione. Carla, senza nemmeno esitare, sicura di aver conosciuto una persona degna di rispetto che suscitava tutto il suo interesse e la sua curiosità, acconsentì all'incontro con Filomena. Arrivò il giorno dell'appuntamento, Filomena rimase un po' sdegnata per lo stato precario dell’abitazione, ma fece finta di niente, anche perché la sua finalità era ben diversa.

Tra le due donne ci fu un bel dialogo. La conversazione si fondò soprattutto sulla sua opera missionaria. Filomena, vantò nell’occasione parecchie conoscenze con sacerdoti e con tanta gente, che era capace di raccogliere tanti soldi che ovviamente poi lei avrebbe inviato a questo lodato sacerdote missionario, con cui comunicava tramite skipe. Disse di avere conquistato tutto l'affetto e la massima fiducia del sacerdote, ma sicuramente anche molto ingenuo. Sempre a suo dire, questi era una persona santa ed infatti aveva deciso di vivere tra i poveri e quindi di provvidenza. Nacque pertanto un'amicizia tra le due donne, anche perché Carla si fidò ciecamente. Filomena aveva sempre il Vangelo sulle labbra e faceva trapelare un amore sviscerato verso i più poveri, verso le persone sante, come madre Teresa di Calcutta, oltre che per la pittura. Ripeteva sempre: “Questo è un momento di grazia!”.

Dopo alcuni mesi: Sonia, che a differenza della madre era molto più avveduta, fece aprire gli occhi a Carla, riuscendo in qualche modo a farle capire che quella donna non era quella che sembrava e volle metterla alla prova. Un giorno organizzò un incontro dedicato alla musica e a questa presunta Associazione Umanitaria, in quanto il pubblico avrebbe pagato il biglietto per il concerto di Carla e avrebbe visionato il DVD dedicato alle opere missionarie di cui si occupava Filomena, in modo tale da poter raccogliere i fondi da destinare a don Mario, missionario del villaggio del Ciad. Fu una bellissima serata. Le persone rimasero incantate nel vedere le scene di vita che conducevano quelle persone, supportate da don Mario, per cui ognuno donò dei soldi a Filomena, oltre ad aver pagato il biglietto per il concerto, essendosi questa proposta come persona garante.

Sta di fatto che Carla non ricevette nemmeno un euro in veste di musicista, ma non è questo il punto. Sarebbe stata pure felice se avesse saputo che gli introiti raccolti da Filomena, fossero arrivati a don Mario e quindi ai poveri africani. Carla, come già detto, si fidava ciecamente di Filomena, apparentemente illuminata e prodiga, ma un mese dopo venne a conoscenza della verità, nel momento in cui la donna stessa, a causa dei suoi atteggiamenti, le insinuò dei dubbi. Carla notò che quando certe persone chiedevano a Filomena il conto corrente di don Mario in modo da poter fare un bonifico, lei rispondeva che non era necessario, asserendo che per poter effettuare un versamento tramite commissione bancaria, ci sarebbe stato un costo di 40 euro, pertanto ella stessa si sarebbe sobbarcata l'impegno di spedire il denaro in un'unica operazione, dopo aver raccolto una cospicua somma e col pretesto quindi di consolidare un risparmio da impiegare sempre in opera benefica.

Carla, infine colta da un persistente dubbio e dopo aver consultato sua figlia, seguì il suo consiglio. S’ informò in banca e venne a chiarire la menzogna di cui era già stata vittima, infatti per trasferire dei soldi in Ciad, il costo era appena di un paio di euro. A quel punto le fu tutto chiaro: Filomena intascava gran parte dei soldi che raccoglieva, metteva in contatto la gente con don Mario, al quale però faceva pervenire una minima quota del denaro raccolto, mentre lei ne intascava la parte più cospicua. E come se non bastasse, aveva anche il coraggio di porsi l'aureola in testa, atteggiandosi a benefattrice. In verità Filomena, si era fatta bene i conti: aveva creduto di poter utilizzare Carla a piacimento, sfruttando i suoi talenti di pittrice e di musicista, approfittando ovviamente della generosità e ingenuità, ma grazie alla figlia, la magagna fu scoperta e vennero troncati i ponti.

In una particolare occasione, Sonia aveva conosciuto Filomena, dalla quale, “con il pretesto di volergli regalare un quadro della madre” aveva ottenuto il numero telefonico di don Mario. Fu così che era venuta a sapere che questi aveva ricevuto da Filomena in occasione del concerto di sua madre, la ridicola somma di euro duecento, mentre la somma raccolta, in verità ammontava ad euro ottocento. Sonia stessa ne informò la madre e tutti coloro che avevano partecipato alla raccolta. A quel punto, Sonia stessa telefonò a Filomena per dirle in modo esplicito ciò che pensava di lei e di lasciare quindi in pace sua madre. Se qualcuno avesse voluto intascare dei soldi, semmai sarebbe spettato alla musicista, dato che aveva dedicato un intero concerto al pubblico, eppure non trattenne nulla per sé. Le disse inoltre delle informazioni in merito alle spese postali di cui era stata messa a conoscenza, quindi per trasferire il denaro in Ciad non si spendevano 40 euro, ma soltanto un paio di euro.

Filomena tentò di arrampicarsi sugli specchi, fece una pessima figura, ma nonostante tutto non si diede per vinta ma rispose in modo alquanto arrogante. Che donna spregevole! Filomena viveva speculando e sfruttando la buona fede delle persone, strumentalizzando l'amore di Dio e il Vangelo. Era come se rubasse il pane ai più bisognosi. Lei, che era un avvocato e aveva una vita agiata, avvertiva l'esigenza di rubare al prossimo e soprattutto ai più poveri! La gente che la conosceva superficialmente, la considerava una perfetta cristiana: si sedeva sempre in prima fila in Chiesa insieme al figlio e al marito e non mancava mai all'adorazione Eucaristica.

Si arruffianava suore e sacerdoti, donava immaginette sacre che sfoggiava come una sorta di evangelizzazione, partecipava puntualmente agli incontri parrocchiali e festività religiose, tutto per raggiungere il suo scopo. Cercava con malvagia capacità di sensibilizzare i parrocchiani nei confronti delle opere missionarie solo per raccogliere soldi e riempire le sue tasche. Al suo amico sacerdote missionario, che gli serviva da specchietto per le allodole, spediva soltanto le briciole. Quando parlava, era capace di suggestionare gli ascoltatori, ostentando loquacità, preparazione religiosa, sicurezza e persuasione. Certo, una donna del genere che oserei definire “la santa con le corna”, non sarà certamente l'unica ad ingannare il prossimo, speculando sulla religione, bontà e fede, mettendo in atto ipocrisia e capacità recitativa. Sono anche convinta che simili individui, un giorno dovranno... delle loro malefatte... rendere conto a Dio.

PARENTI PRETENZIOSI

Vorrei tornare indietro nel tempo, per cercare di mettere più a fuoco l’indole di alcuni parenti di Carla. Qualcosa non quadrava, stonava, strideva. Durante il periodo giovanile di Sonia, alcuni zii, essendo persone molto pretenziose, reclamavano dalla nipote continue visite, come se tanto gli fosse dovuto. La loro era una sorta di bisogno di riverenza e di sottomissione. In pratica non digerivano il fatto che la nipote potesse andare a trovarli di tanto in tanto. Lei ebbe tantissima pazienza, subì a malincuore le loro lamentele, che però riuscì a perdonare, anche se infastidita e senza dimostrarlo. Il paradosso è che i loro figli, cugini di Sonia, non si degnavano nemmeno di andare a trovare gli zii…suoi genitori, a maggior ragione dopo che Carla era rimasta vedova.

Qualcosa infatti non tornava. In effetti i fratelli di Carla erano molto affettuosi con lei e non si permettevano mai di mancarle di rispetto, però Carla, non avendo fermezza, non era mai stata capace di prendere le difese della propria figlia ogni qualvolta fosse bersagliata, perché tendeva a minimizzare tutto: lei chiudeva un occhio, come se il problema non si ponesse, o come se Sonia non fosse sua figlia. D’altro canto, se i suoi nipoti non mostravano tanto riguardo e considerazione, né tento meno segni di affetto nei suoi confronti, Carla non ci faceva nemmeno caso e poi era talmente immersa nel suo lavoro e nel suo mondo artistico, che sarebbe stata l’ultima cosa a cui pensare! I suoi nipoti non andavano mai a trovarla. Questi erano i fatti.

Lei era agli antipodi rispetto ai suoi fratelli che stavano a guardare ogni cavillo e soprattutto pretendevano tanto dagli altri e il fatto che i propri figli potessero essere così distaccati dalla zia, per loro era del tutto normale, probabilmente perché sotto sotto pensavano che Carla non meritasse il rispetto che meritavano loro. Tali parenti mostravano come una specie di insofferenza, soffrivano il complesso di non sentirsi sufficientemente apprezzati o ben voluti. Avevano bisogno di continui apprezzamenti, visite, moine. In verità Sonia, sin da bambina, aveva sempre tanto amato i suoi zii. Purtroppo in età adulta, avendo sviluppato la capacità critica, aveva conosciuto a fondo quei caratteri, individuando pregi e difetti (probabilmente in tanti predominavano i difetti) gli caddero un po’ dal cuore. Sonia era una persona molto buona, sensibile e sincera e detestava atteggiamenti imbevuti di ipocrisia e di meschinità.

Sonia, nel tempo, aveva subito pure una sorta di persecuzione da parte di un paio di zii, perché essendo questi molto gelosi, non sopportavano che lei potesse familiarizzare o avere stretto amicizia con diverse persone con cui aveva tante affinità; in poche parole, erano gelosi di lei, dei suoi affetti, dei suoi contatti sociali, perché a loro avviso, la nipote doveva dare più importanza a loro stessi, che si sentivano snobbati e non rispettati e non si rendevano conto che più mostravano un tale atteggiamento, più allontanavano la nipote. Ribadisco, loro il termine “rispetto” lo storpiavano, non lo intendevano come di solito si intende, non si accontentavano di un rapporto leale, alla pari, ma quasi sudditanza vera e propria.

Sonia, per un periodo, dovette patire “le pene dell’inferno” perché era sempre bersagliata da questi parenti: senza alcuna motivazione, nonostante lei fosse sempre stata molto affettuosa con loro, doveva sopportare le loro ramanzine, rimproveri e persino umiliazioni improprie, fin quando finalmente l’odissea terminò quando si trasferì a Madrid, in seguito al suo felice matrimonio. Ciò che la fece soffrire maggiormente fu l’indifferenza da parte di sua madre, come se luna madre non l’avesse avuta, che per amor di pace e soprattutto per mancanza di carattere e che non ebbe mai il coraggio di prendere le sue difese. Lei non pretendeva che sua madre rompesse i ponti con loro, dato che in fondo erano sempre parenti stretti, ma se non altro, cercava di invogliarla a chiarire una volta per tutte, con le buone maniere, di lasciare in pace sua figlia che si sentiva da loro assillata, ma anche questo desiderio rimase inappagato.

Esistono al mondo dei genitori che difendono a spada tratta i propri figli e anche questo atteggiamento è sbagliato. Occorre la via di mezzo, come in ogni cosa. Tanto per far comprendere il carattere di queste persone, non a caso, quando un nipote di Carla sposò una ragazza che non era laureata e svolgeva il lavoro di bidella, fu il putiferio! Fu la catastrofe universale, perché lo sposo: laureato e figlio di professionisti, considerato quindi un principino, avrebbe dovuto sposare una donna alla “sua pari”, secondo il desiderio dei suoi genitori. Sta di fatto che successivamente e non a caso, la giovane moglie, essendo una donna dominante, ma anche molto in gamba, fece di tutto per far distaccare il proprio marito, non solo dalla sua famiglia di origine, ma anche dalla sua parentela, in quanto aveva percepito la forma di discriminazione dominante nei suoi confronti e della sua famiglia che era più umile. Nonostante ciò, la famiglia dello sposo rimase indignata e non potette ammettere che questa rottura era stata causata proprio da loro stessi. Si atteggiavano a vittime, addossavano la colpa alla nuora, definendola persona fredda e asociale. Del resto, non erano mai stati capaci di farsi un’autocritica.

Nulla avviene per caso. Io aggiungo però che esistono anche dei casi in cui certe spiacevoli situazioni si possono verificare a prescindere dalle incomprensioni caratteriali.

LA TESTARDAGGINE DI CARLA E I PARENTI INVADENTI

Gli anni passavano e la vita era diventata ancora più crudele, Carla era ora novantenne, faceva fatica a camminare ed a rendersi indipendente. Nessuno aveva il coraggio di entrare in quella meravigliosa villa, colma di oggetti pregiati, mobili sciccosi, quadri stupendi (anche di sua produzione) violini costosissimi, ma ahimè … piena di degrado e di desolazione. Tutto era accatastato e messo alla rinfusa. Libri per terra, cose inutili come cartacce vecchie, tappi di bottiglie, sacchetti rotti, stracci, il tutto vicino ai gioielli sparsi e ad oggetti di valore. Il fetore nauseabondo che ammorbava l’aria, rendendola irrespirabile, era anche dovuto a due cani e tre gatti che deponevano gli escrementi dove capitava, perché così erano stati abituati. C’era anche il pappagallo che volava libero per le stanze. In parole povere, gli animali erano diventati ormai i padroni della casa.

Sarebbe stato il caso quindi di trasferirsi a Madrid, dove la figlia avrebbe provveduto a prendersi cura di lei, per le necessità quotidiane inderogabili, ma lei non voleva saperne. Durante le feste natalizie, Sonia decise di farsi una vacanza a Capri per andare a trovare sua madre che non vedeva già da alcuni anni. Rimase scioccata nel vedere lo stato sempre più degradato in cui viveva: divani e poltrone distrutti, a causa delle unghiate dei gatti e sporcizia ovunque. Sonia cercò di convincere la madre e farle capire che era arrivato il momento di dare un taglio netto alla sua vita, ma l’anziana donna era del tutto recidiva e non si voleva distaccare dai suoi ricordi, dai suoi beni e dai suoi inseparabili animali.

Ogni giorno, in quel periodo di vacanza, tutte le volte che la figlia apriva l’argomento era fiato sprecato. Sonia era stremata psicologicamente perché si sentiva impotente e come se non bastasse, quando incontrava i suoi zii (anche loro anziani): i tre fratelli che vivevano a Capri, le trasmettevano una continua ansia, cercando di farla sentire sempre in colpa in quanto a loro parere non si prendeva cura dell'anziana madre. Sua cugina ebbe persino il coraggio di dirle: “Portati tua madre a Madrid! Che cosa aspetti!” Sonia rispose: “Ma ti pare che è un sacco di patate? Se lei non vuole, vuoi che la sequestri?”

Sonia non soffriva quindi soltanto per la sua gravosa situazione familiare, ma si sentiva pure oppressa dai parenti che la stressavano con i loro discorsi insulsi e ripetitivi. Sua madre non voleva sentir parlare di badante, di Casa Famiglia e né di trasferimento in Spagna. La situazione era davvero drammatica. Non voleva prendere nessuna decisione e non voleva perdere la sua illusoria libertà. Tornata a Madrid, Sonia si sentiva assillata da un solo pensiero: se dovesse capitare qualcosa di brutto a mia madre, tutti me ne addosserebbero la responsabilità. Ad un certo punto ebbe un’idea geniale: preparare un DVD contenente un breve video in cui lei parlava, rivolgendosi a sua madre, affinché la persuadesse a trasferirsi a Madrid, non solo, ma anche per lasciare una traccia, in modo che nessuno avesse potuto equivocare ogni sua parola e perché tutte le eventuali calunnie sarebbero in futuro svanite come una bolla di sapone.

Chiese aiuto ai suoi parenti, sapendo che la madre ormai era diventata fatalista, apatica e probabilmente non avrebbe nemmeno visto quel video, anche perché non era esperta in campo tecnologico, per cui chiese ai parenti di farle da portavoce e se avesse potuto inviare ad uno di questi zii il DVD, sua unica speranza, per poi consegnarlo personalmente alla mamma anziana. Due zie, le più affettuose e coscienziose l’avrebbero aiutata volentieri, ma vivendo a Napoli, non avrebbero avuto la possibilità di aiutarla, mentre gli altri zii vicini si rifiutarono perché chissà cosa immaginavano che ci fosse registrato! Sta di fatto che se da un canto gli zii davano l’impressione alla nipote di preoccuparsi tanto per sua madre, dall’altra parte mostravano tanta diffidenza nei suoi confronti, come se il suo messaggio multimediale fosse terroristico, quindi le risposero: “Spiacenti, ma noi in questa faccenda non vogliamo entrare.

Come farebbe poi tua madre a trasferirsi a Madrid se ha con sé tanti animali? Non riuscirebbe a separarsene … mettiti nei suoi panni!” Si rifiutò persino uno zio, non si capisce il motivo, ma stranamente, due giorni dopo, si presentò dalla sorella anziana con una balzana idea. I tre cani gli saltarono addosso, ma non per manifestare effusioni affettive, bensì in atto di aggressione. Lo zio, spaventato e con un sorrisino sulle labbra, si rivolse alla sorella: “Carla, è arrivato il momento di aprire bene le orecchie, tu dovrai subito partire per Madrid, altrimenti verranno gli assistenti sociali per ricoverarti in una Casa di Riposo. Ma stai tranquilla, se ti trasferirai a Madrid, da Sonia, questo non succederà!”

Carla si mise a piangere e a urlare: “Non ci credo! Perché mia figlia non mi ha detto niente?” Agitatissima, cacciò via il fratello, perché non poteva credere alle proprie orecchie. Lui senza reagire se ne andò spiazzato, senza nemmeno una parola di conforto. Quando lei si fu un poco calmata telefonò alla figlia per accertarsi di quanto appreso e questa ovviamente la rassicurò dicendole che lo zio aveva inventato sicuramente una bugia, probabilmente per convincerla a trasferirsi, ma sicuramente non era questa la giusta modalità. Sonia le disse inoltre che aveva preparato per lei un DVD con una registrazione che presto avrebbe ricevuto, in modo da poter fare chiarezza, una volta per tutte.

A causa della mania di protagonismo, lo zio si era voluto esporre, senza nemmeno interpellare la nipote che era poi la parte interessata. Sonia, amareggiata e delusa, dovette spedire il DVD per raccomandata direttamente a sua madre, con la speranza che qualcuno glielo facesse vedere. Non le rimaneva altro che contare sulle proprie forze, ma purtroppo da parte della madre non ebbe la soddisfazione di una risposta, nemmeno per telefono. Non seppe mai se il video fu visionato dalla madre. Era molto stanca, demoralizzata e delusa anche dai parenti che continuavano ad assillarla per telefono, dicendole che quella disastrata situazione non poteva più andare avanti, come se lei potesse risolvere il grave problema con una bacchetta magica. Nello stesso tempo non erano capaci di darle dei consigli validi per trovare una soluzione.

Ma il bello deve ancora arrivare! I gatti e i cani ormai erano diventati vecchi e ammalati, mentre il nuovo pappagallo, essendo ancora in forma, suscitava la simpatia e l'interesse della parentela, per cui tutti si preoccupavano di lui, come se Carla fosse passata in secondo piano. Questi strani parenti continuavano a tartassare di telefonate Sonia, dicendole di doversi preoccupare del pappagallo Arturo, affinché non andasse incontro a malattie come era capitato a cani e gatti. Una zia disse a Sonia: “Mi raccomando, Sonia, chiedi a tua madre di portare il pappagallo dal veterinario! A noi non ascolta!” Un altro giorno le telefonò e se ne uscì con questa frase: “Se tua madre dovesse trasferirsi a Madrid, non pensare che si porterà il pappagallo! Sarà difficile per lui cambiare ambiente! Dovresti provvedere prima ad un giusto collocamento per il pennuto!”

Un altro giorno telefonò a Sonia sua cugina e se ne uscì con questa frase: “Ma siamo impazziti? In questo periodo Arturo sta facendo la muta, quindi non è assolutamente consigliabile fargli affrontare un viaggio!” Sonia era stufa di sentirsi chiedere dagli assillanti partenti notizie di Arturo. E che ne sapeva Sonia se si sarebbe trovato male a Madrid? E poi ancora qualche zio le diceva: “Ma siamo sicuri che Arturo sarà in grado di affrontare il viaggio senza agitarsi?” Insomma, i parenti ormai avevano spostato l'attenzione sul pappagallo, come se la sua vita fosse diventata più importante di quella della madre. Roba da pazzi!

Quando la zia attrice chiese a Sonia come stesse il pappagallo e sentendosi dare una risposta evasiva, a causa della stanchezza e per aver dovuto affrontare problemi ben più gravi, lei non rispose sul momento, e sembrò che la cosa fosse scivolata nel nulla, ma da quell'istante in poi, la zia non volle più sentire parlare di sua nipote, perché interpretò quella risposta a metà, come un grave sgarbo e una mancanza di rispetto nei suoi riguardi. Tanto più che questa zia mostrava un senso di astio nei confronti di Sonia, perché non era assidua ad assistere ai suoi spettacoli teatrali. Per questo motivo, non sentendosi ben voluta, né tanto meno apprezzata da Sonia, decise di troncare il rapporto con lei, proprio colei che l'aveva tanto amata.

Da quel momento Sonia si rassegnò al triste destino e decise di non affrontare mai più quegli inconcludenti argomenti che tanto non approdavano a niente, visto che tutti parlavano di un ipotetico trasferimento, ma la persona interessata (Carla) non si poneva nemmeno il problema, anzi si infastidiva al solo pensiero.

IL VITTIMISMO E LA GRANDE CONTRADDIZIONE DI CARLA

Carla non era più in grado di vedere lo sporco e il disordine nella sua casa, si era abituata, anzi ci stava bene, ma si accorgeva alla perfezione del lato estetico e concentrava la sua attenzione sui particolari del tutto insignificanti, ai limiti della pedanteria. Criticava spesso sua figlia per come vestiva, pur se indossasse abiti decorosi che non rientrassero però nelle sue preferenze. In pratica, il suo egocentrismo non le faceva ammettere che ciò che per lei era speciale, ad altri poteva anche non piacere. Quando di tanto in tanto andava a Madrid a trovare la figlia, puntualmente doveva farle notare che non gradiva quei ninnoli che teneva sulle mensole e le diceva: “Ma perché tieni tutte queste cianfrusaglie? Io a casa mia tengo solo pochi oggetti pregiati! Sbarazzati di tutto!”

Sonia sopportava in silenzio, ma una volta perse la pazienza e le rispose per le rime: “Mamma, ascoltami bene una volta per tutte: come fai a criticarmi per queste poche e innocue minuzie, mentre non badi all’ordine e pulizia che pur con sacrificio mantengo scrupolosamente? Ti sei accorta che in casa tua ci sono invece caos e sporcizie per eccellenza?” Carla, essendo molto permalosa, ribatté in modo risentito: “Ecco, l’immaginavo... mi tratti sempre male! Perché sei tanto suscettibile? Non ti si può dire niente! Ti pare che sono stupida?” Da quel momento Sonia comprese che non valeva proprio la pena discutere con la madre permalosa e poco incline al buon dialogo e che quindi per evitare inutili litigate, sarebbe stato meglio tacere. Non c’era rimedio, Carla pretendeva a forza l’ultima parola!

Aveva la donna l’abitudine di criticare gli altri, in particolare la figlia, ma guai se qualcuno si azzardava a criticare lei! Se qualcuno osava toccarle i punti deboli, si offendeva e andava in crisi. Sonia aveva capito che per potersi relazionare con sua madre in modo sereno, avrebbe dovuto semplicemente assecondarla. In conclusione, Sonia non riusciva a darsi una plausibile spiegazione circa la manifesta contraddizione di Carla che non affrontava i problemi reali, mentre si soffermava sui quelli inesistenti. Inoltre adottava un metro e due misure nel momento in cui si sentiva autorizzata ad esprimere giudizi negativi sul prossimo, ma non accettava parimenti i giudizi negativi nei suoi confronti.

Una volta Sonia, “che aveva investito i propri risparmi e stipulato un piccolo mutuo per l’acquisto di un appartamento situato nello stesso palazzo in cui abitava dopo la morte del fratello” pensò di fare una proposta a Carla: “Mamma, perché non ti trasferisci a Madrid e vieni a vivere nel nostro appartamento che abbiamo acquistato? Se tu accettassi, io non lo affitterei ad altri. In tal caso tu mi aiuteresti a pagare le spese e ovviamente mi daresti un tot al mese, cifra decisamente inferiore rispetto a quella che percepirei da una famiglia affittuaria estranea. Che ne pensi? Sarebbe bellissimo averti vicino! Ti godresti inoltre i nipoti. Cosa ci fai a questo punto, da sola a Capri?” Carla le rispose: “Non me la sento di trasferirmi definitivamente a Madrid, ma se vuoi, verrò a vivere in questa casa solo per un paio di mesi all’anno e magari qualche volta durante le vacanze. Che ne pensi?”

Sonia capì immediatamente che si trattava di una risposta assai balzana. Quella sarebbe stata una scelta antieconomica, perché non avrebbe potuto chiedere soldi a sua madre se non l’avesse occupata tutto l’anno. E per finire, Carla, essendo molto cavillosa, cominciò a criticare l’appartamento: “Comunque questa casa è troppo piccola!” Come potrei rinunciare agli spazi enormi della mia villa?” Sonia capì all’istante che da sua madre non poteva aspettarsi nulla di buono e che trattare con lei sarebbe stato solo fiato sprecato, per cui si rassegnò all’idea di affittare l’appartamento, tanto più che capiva che la madre viveva fuori dalla realtà e non aveva il senso pratico e viveva nel mondo delle fiabe. Era si…straordinariamente brava a creare quadri e brani musicali, ma purtroppo era anche priva di senso pratico.

Passarono gli anni e Carla rinfacciava alla figlia di non averle permesso di vivere nel suo appartamento, come se avesse rimosso dalla mente i discorsi che avevano affrontato anni addietro. Non voleva ammettere che era stata lei stessa a rifiutarsi di trasferirsi in quell’appartamento in Madrid, arrivando persino a stravolgere i fatti, incolpando la figlia di aver preferito affittare la casa ad estranei, piuttosto che a sua madre. In cuor suo, ma anche sfacciatamente parlando, Carla continuava ad incolpare Sonia per aver affittato l’appartamento ad estranei, anziché lascialo libero e a disposizione della madre. Non si rendeva conto che sarebbe stato impensabile rinunciare ad un aiuto economico, dato che sua figlia si era dovuta pure sobbarcare un mutuo e con un reddito che non era poi altissimo. Purtroppo Carla non era mai stata capace di gestire nel migliore dei modi i soldi che guadagnava ed aveva oltretutto permesso al figlio di sfruttare la ricchezza per l’acquisto di droghe e bagordaggini varie.

Carla manteneva sempre un atteggiamento vittimistico nei confronti della figlia e tendeva spesso a colpevolizzarla senza valide motivazioni, quindi spesso l’avviliva. Mostrava una sorta di complesso, cioè di non sentirsi abbastanza amata, invece Carla la amava tanto, semmai soffriva per quelle incomprensioni, per come si relazionava con gli altri e soprattutto con lei. Carla non accettava consigli da nessuno e se qualcuno lo faceva, se la prendeva a male, perché pensava che volessero darle ordini, come se fosse considerata una persona incapace e stupida. Soffriva, era evidente, di una forma di fissazione e limite mentale.

Una volta, Carla, dopo essere stata ospitata per un periodo a Madrid, a casa della figlia, decise di affrontare il viaggio di ritorno in treno. Arrivate alla stazione, Sonia consigliò a sua madre di togliere dal collo la preziosa collana di perle e corallo puro, regalata in passato da suo marito, perché sarebbe stato rischioso indossarla durante il viaggio. Preferiva piuttosto custodirla lei stessa, ma sua madre si rifiutò di assecondarla e le rispose aspramente: “Non vedi che sto male col collo nudo? Lasciami stare!” A quel punto, Sonia dovette rassegnarsi alla stupida caparbietà della madre. Si salutarono e salì sul treno.

Sta di fatto, che durante il viaggio (lei di solito partiva in aereo, ma in quell’occasione aveva deciso diversamente) durante la notte, mentre dormiva, qualcuno le rubò la preziosa collana. Anche in questo caso però Carla non volle ammettere la sua colpa: non aver ascoltato il consiglio saggio della figlia. In realtà lei era superficiale e sprovveduta. Era rimasta un’eterna bambina. Ai tempi in cui il marito era in vita, Carla avviliva il pover’uomo per problemi che lei stessa creava. Ad esempio: se occorreva qualche lavoro di ristrutturazione alla villa, lei si opponeva, si confondeva per niente, aveva paura di cambiare l’estetica, paura di spendere soldi, magari il denaro lo avrebbe sperperato per cose poco importanti, era sempre timorosa per le esiguità. In verità non sopportava che suo marito prendesse delle iniziative, perché doveva dimostrare a tutti i costi che era lei a comandare. Aveva sempre quel timore di sentirsi scavalcata, sminuita, non presa in considerazione e quindi persisteva nella voglia sfrenata del contraddire chiunque, anche dinanzi alla più lampante evidenza.

Suo marito, uomo dalla pazienza infinita, possedeva uno spiccato senso pratico, per cui doveva spesso litigare con la moglie, affinché si convincesse a lasciarlo fare e così, dopo l’immancabile procurato stress ed a lavoro terminato, Carla finiva di lamentarsi, si abituava subito al cambiamento e al rinnovamento apportato, mostrando persino segni di contentezza. Non dava comunque soddisfazione al marito, per non ammettere la sua colpa. Carla, non riusciva proprio a distinguere le persone sincere da quelle false. Si faceva suggestionare particolarmente dall’aspetto fisico, dalla preparazione culturale, dalla simpatia, dalla parlantina e spesso anche dalle false moine. Le esperienze passate e le buggerature ricevute in passato, non le erano bastate. Aveva ancora l’ingenuità di una bambina, anche con l’età avanzata, anzi, adesso era peggiorata notoriamente.

Tempo indietro si era fatta sottomettere dal figlio drogato e prepotente, ma non lo voleva ammettere e cercava ora di rivalersi sulla figlia saggia, facendola soffrire. Si sentiva incompresa, nonostante il successo ottenuto grazie all’arte di cui era padrona. Per fortuna la musica e la pittura erano le sue valvole di sfogo. Con la madre, Sonia doveva usare tanta pazienza e misurare le parole, perché ne bastava una di troppo o di dubbia comprensione, perché andasse in escandescenza. Carla infatti non era per niente obiettiva, ribaltava la realtà e stravolgeva sempre i fatti, anche i più veritieri e lampanti che fossero. In verità Carla non aveva mai manifestato l’intenzione di trasferirsi a Madrid: era troppo legata alla sua terra e ai suoi beni. Non pensava proprio a traslocare e per di più in terra straniera.

INCOMPRENSIONI E INGERENZE

Un giorno si presentarono in casa di Carla le cognate con l'intento di farsi regalare i suoi migliori quadri e le dissero: “Tu ormai hai novant’anni e tua figlia è lontana. Perché non ci regali un po' di quadri? Tanto a Sonia farà piacere se li regali a noi!” E così Carla, senza farselo ripetere due volte, regalò loro cinque quadri, proprio i preferiti di sua figlia. In verità Carla prendeva più in considerazione i suoi fratelli e i suoi cognati che non la figlia stessa. Temeva di fare brutte figure con la sua famiglia di origine piuttosto che con la famiglia che aveva ella stessa costruito. Un altro giorno, si presentò una sua presunta amica, persona molto colta e distinta, per estorcerle un quadro molto grande e impegnativo. Le disse: “Carla, Me lo regali? Non puoi immaginare quanto io tenga ai tuoi quadri!” L'anziana artista, senza esitare glielo regalò, ma non pensava che in fondo questa donna era solo un'opportunista. Purtroppo lei non era capace di pensare male degli altri. Non sapeva mai dire di no e non aveva mai fatto tesoro delle negative esperienze passate. Passarono tre anni ancora e Carla morì.

I parenti, tranne le due sagge sorelle di Napoli, si accanirono contro Sonia, come se a tutti i costi avessero bisogno di trovare un capro espiatorio, addossandole la colpa di essere stata egoista e menefreghista nei riguardi della madre. I rapporti con la nipote si ruppero, fino al giorno in cui, casualmente, una cognata di Carla, frugando tra i cassetti, si accorse del DVD. Così se lo portò a casa e insieme alla sua famiglia lo visionò. Si trattava dello stesso, temuto e snobbato dai parenti stessi e che avevano rifiutato di consegnare alla sorella cocciuta e sofferente.

Rimase stupita perché si accorse che Sonia in quella registrazione non aveva detto nulla di tutto ciò che loro avevano immaginato. Era arrivato il momento di conoscere la realtà dei fatti, avendo scoperto le buone intenzioni di Sonia, sempre criticata e sminuita dai parenti malpensanti. Lì c’era incisa tutta la verità, il contenuto del DVD era colmo di sentimenti, di riflessioni profonde e soprattutto c’erano spiegati i diversi motivi per cui secondo Sonia sarebbe stato opportuno un trasferimento a Madrid, vicino a lei, l’unica persona della famiglia che era stata capace di amare la madre, nonostante la sua ingratitudine. Detti parenti ignavi e con la mania di protagonismo, quando sua madre era ancora in vita sembravano che avessero voluto aiutare Sonia e invece studiavano ogni sua mossa per poterla giudicare, fraintendendo le sue intenzioni e le sue iniziative.

Nemmeno dopo questa triste odissea, i parenti non ebbero il coraggio di chiederle perdono e così Sonia, continuò a occuparsi della propria vita, del marito e delle figlie, mantenendo buoni rapporti con le sue uniche due zie affezionate. Ad esempio, una cognata di Carla aveva un brutto carattere: era da un lato affettuosa e dall'altro era molto aggressiva, infatti un attimo dopo diventava offensiva e parecchio diffidente. Il suo comportamento per certi versi imprevedibile e poco giustificato, è paragonabile a quello di un cane che, pur avendo tutte le attenzioni e le cure dal suo padrone, alla prima occasione lo azzanna. Bastava un minimo equivoco che subito andava in escandescenza e senza nemmeno chiarire con la nipote, subito pensava male di lei, atteggiandosi a vittima, come se non fosse presa molto in considerazione. In lei esisteva una sorta di insicurezza, ovvero di non sentirsi molto apprezzata.

Evidentemente nella sua mente macchinosa c'era qualcosa di strano che la rendeva incapace di relazionarsi serenamente con gli altri, per cui era facile all'ira, tanto che la sua volubilità trascinava i suoi sentimenti da un'estremità all'altra. Era una persona davvero inaffidabile. Sonia era stanca di sopportare le scenate improprie da parte della zia acquisita. Un'altra cognata, settantenne, Marilena, invece era piena di sé, faceva l'attrice, si sopravvalutava ed era incapace di immedesimarsi nelle esigenze altrui. Pensava che tutti dovessero ruotare attorno a lei e non a caso era reduce da tre matrimoni.

Anche questa aveva una specie di fissazione: non si sentiva mai apprezzata e cercava continui consensi, altrimenti andava in crisi. Malgrado le persone con cui si relazionava attraversassero momenti difficili, lei si realizzava, rimanendo concentrata su di sé, chiusa nel proprio egocentrismo. Nel caso specifico di Carla e di Sonia, non era riuscita ad intrufolarsi nei loro panni. Era molto superba, narcisista e incapace di ascoltare gli altri, sempre molto veloce a dare giudizi azzardati, dettati dalle sue frivole costruzioni mentali. Non era aggressiva come l'altra zia, ma tagliava subito i rapporti anche con le persone più care, quando qualcosa non le quadrava. Bastava una sfumatura di atteggiamento a lei poco chiaro, come quella volta in cui una sua amica non si era fatta più sentire per un anno perché aveva avuto problemi di salute, ma quando poi la chiamò, Marilena le bloccò il telefono, perché credeva di essere stata trattata male. Infatti Marilena immediatamente troncava con facilità qualsiasi rapporto anche con delle motivazioni futili.

Purtroppo la sua mente contorta era come se funzionasse a senso unico: si aspettava il massimo dagli altri e non perdonava il pur minimo errore. È tutto ciò un’incongruenza e un contrasto, proprio perché l’ignavo non è buono a fare niente e rinuncerà a intraprendere ogni tipo di iniziativa. Non si mette all’opera, però molte volte ha una presunzione di porsi sempre al centro, ammaestrando, criticando e atteggiandosi a sapiente. Questa storia dettata dalla mia immaginazione, credo che sia utile per far riflettere quelle persone che potrebbero rispecchiarsi in questa categoria di individui che, spinti dall’orgoglio, dalla superbia, dalla presunzione di sapere, dalla malafede e dai falsi pregiudizi, azzardano e danno giudizi o consigli impropri, compromettendo le relazioni, rischiando infine di trovarsi sempre più sole ed emarginate, perché a furia di litigare e trovare i difetti nell’altro, finiscono loro stessi per isolarsi da tutti. Purtroppo questi individui “che definirei paranoici” sono sempre incapaci di piegarsi all’autocritica.

Esistono persone molto diffidenti che pensano sempre male degli altri, perché hanno il male insito in sé stesse e riescono a procurare sofferenza al prossimo specie in relazioni di convivenza o di lavoro. Esistono invece altre persone che tendono ad idealizzare gli altri, arrivando a proiettare la propria indole buona su di loro e quindi non aspettandosi il male da nessuno. Costoro soffrono pure molto, datosi che soltanto dopo avere conosciuto realmente determinate persone, fino a quel momento idealizzate, subentra la delusione, facendolo loro percepire un senso di disgusto e di amarezza. Gli individui si conoscono fino in fondo durante un viaggio o una vacanza trascorsa insieme, ma soprattutto nei momenti di difficoltà, perché soltanto quando si affrontano problemi comuni, si ha la possibilità di conoscere la loro vera natura.

QUANDO I NANI SI CREDONO GIGANTI

Non fidarsi mai di quelle persone che si comportano molto bene con te e male in società, perché prima o poi arriverà il momento in cui si comporteranno male anche con te. Ci sono anche di quelli che ambiscono al successo e alla notorietà, senza rendersi conto che per ottenerlo non basta avere i requisiti di talento, bravura, o intelligenza, perché il talento non è sempre collegato al sicuro successo e non sempre il proprio talento accontenta le aspettative di un vasto pubblico. Tale categoria di persone è illusa, infantile ed ha un'altissima considerazione del proprio “Io”. Esaminando ora il caso specifico della zia attrice di Sonia, Marilena, che porto ad esempio: era molto volubile, non si affezionava mai a nessuno e quando sembrava che si fosse affezionata ad un parente, ad un amico che frequentava da lunghi anni ci si accorgeva che era stata solo una parvenza, perché arrivava il giorno in cui qualcosa non quadrava, magari per una parola detta male o fraintesa o semplicemente perché questa persona non manifestava elogi più di quanto lei stessa si aspettasse. In poche parole, individui del genere badano al quanto il prossimo li fa sentire importanti, pretendendo le massime e continue attenzioni.

Tornando a Marilena: A suo avviso... certi amici, parenti o semplici interlocutori non erano mai degni della sua persona. Non considerava che ciascuno avrebbe potuto avere le proprie valide motivazioni o semplicemente perché non tutti amano il teatro. Era troppo concentrata su sé stessa per poter immedesimarsi nelle altrui problematiche. La predetta era abituata ad allontanarsi definitivamente da tutte quelle persone con cui aveva un rapporto anche collaudato da anni, in quanto secondo il suo pensiero contorto avevano deluso le sue aspettative. La manifesta presunzione e aberrazione della realtà, la convincevano a deviare dalla reale motivazione, era quindi in un attimo capace di distruggere un profondo rapporto affettivo. Il più delle volte per arrivare a questo paradosso non necessitava nemmeno un dialogo di chiarimento, proprio perché non si “abbassava” al livello degli altri, avendo una considerazione troppo alta della sua traballate e vanitosa personalità.

Non a caso aveva tre matrimoni alle spalle e aveva annullato tante valide amicizie. Molto spesso gettava via anche rapporti prolungatisi per un' intera vita. Ribadisco, Marilena era intransigente, cercava la perfezione negli altri, specie se non si sentiva sufficientemente stimata o amata. Il problema lo creava lei stessa, a causa dei suoi pensieri contorti che la dominavano, quasi come una patologia, aggravati dalla sua perenne insoddisfazione, frustrazione, nonché il bisogno di acclamazione e consenso da parte di una platea astratta ed idealizzata nella sua mente.

Tale categoria di persone è come se incarnasse per tutto il corso della propria vita quell'ideale di grandezza e di affermazione che però non riesce mai a raggiungere. Il peggior difetto della gente di successo è quello di sentirsi autoritariamente intoccabile, cosicché la suscettibilità è sempre ai massimi livelli. Tali personaggi soffrono di permalosità, sono pretensiosi, arroganti e spesso anche attaccabrighe. Il considerare gli altri degli inetti inferiori e usarli come mezzi per il raggiungimento di un benessere interiore e materiale è frequente ed appagante nello stesso tempo. Chi rattrista, chi annoia, chi fa presumibilmente perdere tempo, diventa palla al piede di cui urge liberarsi alla prima occasione.

Fin quando “questi” rimarranno nella cerchia dei dilettanti bravi o dei mediocri talentuosi, ci sarà sempre una grande distanza tra loro e i veri vip, cosicché le uniche cose di grande di cui possono fare vanto, sono l’autoconvincimento e la vendita di fumo. Tutto ciò che non riescono a raggiungere con la bravura personale e professionale, la pretendono e la vogliono, costi quel che costi. La convinzione di essere giganti li fa uscire dal seminato, con il danno scontato per chi è costretto a sopportare ed inevitabilmente soccombere. La delusione nei confronti del Mondo, che a loro avviso non li capisce e non li apprezza a dovere, crea un senso di frustrazione e finiscono perciò col rivalersi su tutti coloro che per qualche motivo ci hanno a che fare. In conclusione: non appena qualcuno non soddisfa le proprie aspettative e ambizioni, finisce di esserne nelle grazie e viene allontanato.

Molti di coloro che invece anche a fatica guadagnano il successo, riescono a conservare la semplicità, mentre tanti altri trovano una giustificazione per ingigantire la superbia che già li caratterizzava. Marilena, come tutte le persone superbe, aveva un'alta considerazione di sé. Valutava migliori di quelli altrui i propri punti di vista, i propri ragionamenti, le proprie azioni, le proprie capacità, nonché i risultati. Ogni successo degli altri tendeva a considerarlo immeritato, per cui di scarso valore. La superbia va sempre a braccetto con l'invidia, che annulla o svaluta i meriti degli altri. L'invidia è figlia della superbia, perché ne è la conseguenza più immediata. La superbia si traduce in una forma di discriminazione, simile al razzismo sviluppato nel proprio ambito sociale, in cui i meno ricchi, i meno colti, i meno titolati sono considerati inferiori. La superbia quindi ha le stesse radici del razzismo, in quanto presunzione di superiorità.

Ma esistono anche persone che non presentano queste caratteristiche di privilegio, eppure manifestano la propria superbia attraverso altri atteggiamenti e motivazioni che non esistono, quindi non è detto che questo connotato negativo sia necessariamente legato a tali requisiti, ma esclusivamente alla propria convinzione di essere superiore agli altri. Lo dimostra il fatto che se consideriamo ad esempio parecchi personaggi di spicco e dotati di grandi talenti, nonostante ciò, possono restare persone molto umili e sono queste che le contraddistinguono e che le rendono degne di ammirazione e di rispetto. Esistono infatti parecchi casi emblematici, tra cui il famoso musicista Ezio Bosso, il musicista Morricone, il regista Tornatore, l’indimenticabile attore Massimo Troisi, il grande cantautore Pino Daniele, e tanti altri ancora. In conclusione, la superbia è solo una questione di indole, a prescindere dalle proprie capacità, i propri talenti o stato sociale.

IL VITTISISMO DEGLI AGUZZINI

La cosa più assurda e sconvolgente di queste situazioni che si vengono a creare, è che alla fine di ogni storia, coloro che avevano rivestito il ruolo di aguzzini, coerentemente con la contraddittorietà della propria natura, riescono a recitare la parte delle vittime. L'arte della finzione e della mistificazione viene messa in atto dall'essere umano molto meglio di come non riescano a fare tutti gli altri mammiferi presenti sulla faccia della Terra.

L'AMICO NEL MOMENTO DEL BISOGNO

Ci sono persone che vantano un vasto parco di amici, ma non solo di quelli virtuali dei social, ma persone con cui relazionarsi di presenza. In base al significato più autentico di amicizia, sarebbe umanamente improbabile poter coltivare vere amicizie quando di numero superassero le svariate decine o addirittura il centinaio. Pur di apparire autenticamente legato, il nostro “amicatore seriale” si mostra affettuoso ed emotivamente coinvolto tutte le volte che si relaziona col suo harem di amicizie, ma per l'appunto si tratta solo di un atteggiamento di comodo che serve solo a catturare la stima e la fiducia. Fino a questo punto potrebbe sembrare che non ci sia nulla di male, ma osservando come il rapporto si evolve il seguito, tutto cambia di valore e di significato. Questi coltivatori di amici, dopo aver piantato il loro vivaio, non si dedicano più a coltivarlo. Non si fanno vivi, non comunicano e magari si dedicano ad altre semine, perché di quelli che per conto loro si definiscono amici, più ce n'è e meglio è, per il semplice motivo che secondo il loro costume, prima o poi possono sempre servire!

Così il nostro “simulatore seriale” pensa bene di farsi vivo non appena gli si presenta l'occasione di poter avere bisogno di uno dei suoi tanti “appoggi” creati in passato, infatti questo pseudo-amico, o per meglio dire la categoria di amici di questa specie, si vede (si fa vivo) nel momento del (suo) bisogno.

L’OMBRA DI PROPRIETÀ

Una coppia di coniugi viveva in una villetta in montagna, nella zona Etnea, attorniata da un piccolo giardino. Vicino al muro di cinta si trovava già da lunghi anni un abete mastodontico, pertinenza della villetta confinante, in cui viveva una vecchietta di scarsa cultura e malata da poco tempo di Alzheimer. La donna era vedova e aveva un figlio che viveva in Belgio, per cui era assistita notte e giorno da una badante. La villetta era stata acquistata anni addietro dal marito che aveva colto una favorevole occasione. L’abitazione era in ottime condizioni, ma presentava un neo: la presenza dell’abete era fuori luogo, ovvero distava dal muro di cinta cinquanta centimetri circa, mentre per legge sarebbe dovuto stare ad almeno tre metri. Purtroppo i vecchi coinquilini avevano commesso in passato un errore madornale: piantare quell’albero proprio vicino al confine, senza rispettare la normativa di legge.

Anni indietro il marito dell’anziana donna, aveva pensato di fare tagliare l’albero, anche perché in caso di intemperie sarebbe potuto crollare sulla casa dei vicini, con tutte le spiacevoli derivanti conseguenze. L’uomo, essendo persona particolarmente lenta nella pratica decisionale, non prese però mai sul serio l’iniziativa e sta di fatto che gli anni passarono e l’albero diventò ovviamente sempre più grande. La presenza della pianta, tutto sommato ai vicini non dispiaceva, anche perché l’abete proiettava piacevole ombra sul loro terrazzo, specialmente in estate. Badarono ingenuamente costoro al momentaneo beneficio che ne traevano piuttosto che ai rischi sempre più concreti a cui andavano incontro. e…tempo trascorrendo, del vecchio progetto di abbattimento non se ne fece niente. Un bel giorno, Vincenzo, figlio della vecchietta, oramai morto il padre, trascorrendo un periodo di vacanze in casa dalla madre gravemente malata e che iniziava a perdere la memoria, decise finalmente di far tagliare l’albero ormai diventato vistosamente pericoloso e contattò quindi una ditta specializzata nel settore.

Arrivati gli addetti per dare esecuzione ai lavori non trovarono Vincenzo, che aveva dovuto anticipare la partenza per urgenti personali motivi. Prima di allontanarsi, il giovane aveva pensato bene di saldare il conto alla ditta, in modo tale da non lasciare l’incombenza alla madre pressoché disabile. Al momento dell’esecuzione, però i vicini “non proprietari”, avendo afferrato la situazione, si avvicinarono agli operai e con aria di spavalderia intimidatoria, domandarono loro cosa stessero facendo. “Non si vede? Stiamo tagliando l’albero”. Risposero questi. “Fermatevi! Non fate nulla! Come vi permettete? Non potete toccare quest’albero!” “Ma cosa state dicendo? Non vedete che è nella proprietà della vostra vicina?” “Ma cosa ve ne importa? Va bene che l’albero appartiene ai vicini, ma noi siamo i proprietari della sua ombra! Non azzardatevi a tagliarla, altrimenti chiameremo la guardia forestale!”

“Bene, chiamatela pure, e vedrete che vi daranno torto! La guardia forestale in questo caso non ha competenza, visto che l’abete è di proprietà privata. Lo capite che potrebbe cadervi sulla testa? I proprietari vostri vicini vogliono mettersi in regola con la legge ed hanno ragione. Lasciateci lavorare…per favore! Oltretutto il figlio della signora ha già pagato il lavoro!” La donna a quel punto, sempre più euforica: “Lasci stare quello stupido di Vincenzo, che non capisce un tubo! L’ombra è nostra e nessuno si può permettere di portarcela via!” I coniugi in questione, nel paese non godevano di buona stima e non a caso erano soprannominati: “Il gatto e la Volpe”. La povera vecchietta e Vincenzo erano invece persone molto discrete, educate e in ottimi rapporti con il prossimo. La donna, non si perse d’animo e replicò: “Mi è venuta un’idea! Al posto di tagliare l’albero, perché non venite a tagliarne uno della nostra proprietà, già destinato ad essere tolto?”

I due operai ascoltavano e mormoravano tra loro: “Ma questi sono scemi o si vogliono prendere gioco di noi e dei loro vicini? Che sfacciataggine! Che prepotenza! Che maleducazione!” Quando i due furbastri si accorsero che gli operai non acconsentivano alle loro stramberie, si precipitarono dalla vicina proprietaria e con aria supplichevole, incominciarono a raggirarla, affinché la poverina si potesse intenerire. “Signora, lei che ha un cuore grande ed è tanto comprensiva, non faccia tagliare l’albero che è la nostra vita, Ci dà tanta ombra! Sarebbe un vero peccato! Tra l’altro la guardia forestale stessa ha detto che non va tagliato!” La vecchietta, priva di logico senno e mentalmente tornata bambina, si commosse, uscì all’aperto e diede ordine di fermare i lavori, anche ignorando il fatto che suo figlio avesse già pagato in anticipo.

“Il gatto e la volpe” la sera brindarono per l’obiettivo raggiunto: “Siamo dei grandi!” Meno male che Vincenzo, povero scemo, era già partito, altrimenti l’albero a quest’ora non ci sarebbe più! Che fortuna abbiamo avuto!” Quando Vincenzo, venne a sapere dalla badante della furberia messa in atto dai marpioni vicini di casa, andò su tutte le furie. Del resto non poteva nemmeno inveire contro sua madre malridotta com’era e per amor di pace, evitò comunque di litigare. Anche perché discutere con certi individui sarebbe stato inutile e dannoso. Erano questi, la personificazione della non ragionevolezza e ciò era dimostrato appunto, anche dalla pessima fama di cui godevano. Vincenzo, aveva comunque deciso di aspettare alcuni mesi prima di chiamare la stessa ditta e fare eseguire una volta per tutte il lavoro in progetto. Questa volta però sarebbe stato presente e si sarebbe impuntato con tutte le sue forze.

Naturalmente il giovane ci avrebbe rimesso anche di tasca propria, datosi che avrebbe dovuto pagare nuovamente il disturbo, onere che per giusta causa avrebbe dovuto essere a carico dei vicini che avevano a suo tempo intralciato l’opera di demolizione, ma ancora una volta, con la pazienza certosina, Vincenzo avrebbe pagato, purché la cosa fosse andata a buon fine. Il fato volle però…che dopo circa un mese da quel memorabile giorno, una fortissima raffica di vento causò l’abbattimento dell’albero, andando a schiantarsi “come previsto” sulla casa dei vicini, distruggendo il tetto e uccidendo il loro cane. Il fatto avvenne durante la notte e la vita dei presenti fu risparmiata. “Il gatto e la volpe”, disperati e addolorati per la morte del loro amato cane, non si persero d’animo ed architettarono un altro piano, ovvero, approfittare della vecchietta smemorata, perché pagasse lei i danni subiti.

“Adesso dovrete assumervi le vostre responsabilità! Siete dei vigliacchi, volete approfittare di una povera vecchietta smemorata! Ma non avete vergogna? L’avete già fregata la prima volta, impedendole di tagliare il nostro albero e adesso la volete fregare per la seconda volta, chiedendo il risarcimento dei danni? Ma che coraggio avete? Se adesso non la smettete io vi denuncio in Tribunale e citerò quale testimone la badante che sa tutto. Ve la siete cercata, adesso ne piangerete le conseguenze!” A quel punto, i due furbacchioni dovettero fare marcia indietro, mettersi la coda fra le gambe ed accollarsi le spese necessarie per le riparazioni della casa.

MALEDETTA STUPIDITA'

Due famiglie vivevano ciascuna in una casa singola, circondata da un ampio terreno pieno e di alberi e piante di ogni tipo. Erano confinanti e avrebbero dovuto ultimare i lavori costruendo il muro di cinta. I componenti delle due famiglie erano accomunate dalla stessa avidità. Una della due innalzò il muro appropriandosi di venti centimetri in più rispetto al confine, sacrificando quindi lo spazio comune dove si sarebbe dovuta creare una strada, suscitando per l’abuso la rabbia nei vicini. Dal canto suo, l’altra famiglia, anziché lasciar correre sull'errore dei vicini, quando arrivò il momento di costruire il muro di cinta, non solo commise la stessa bravata, ma spostò addirittura il confine della proprietà di altri dieci centimetri oltre ai venti.

In conclusione, tra le due famiglie si rovinarono i buoni rapporti e la strada che separava le rispettive proprietà risultò molto stretta, tanto che le macchine facevano fatica a passare. Con la maligna avidità che solo l’essere umano sa perpetrare, avevano creato “i vicini di casa” un grosso e duraturo disagio per sé stessi e per altri. Ogni volta che passavano attraverso la misera stradina trovavano anche il coraggio di imprecare. Maledetta stupidità!

IL RITRATTO DELLA DISCORDIA

PRIMA PARTE

Ogni riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale. Da un anno è morto Paolo, impiegato comunale e Assessore alla Cultura presso il Comune di un paese del Piemonte. Persona ammirabile e ben voluta da tutti, ma anche abbastanza invidiata dai più meschini, persona valida sotto il profilo professionale e ricca di ammirevoli umane qualità. Riccardo lavora in Comune da almeno quindici anni. Presenta un’indole molto egocentrica, ovvero: deve a tutti i costi primeggiare, cercando di affossare gli altri. É prepotente, falso, arrivista ed ambisce a diventare sindaco, ma non ne ha e qualità per poterlo fare. Ha soltanto una voglia sfrenata di sottomettere gli altri e solo così si sente realizzato.

Come in tutti gli ambienti di lavoro, tra gli impiegati spiccano due categorie di individui: la prima, costituita da persone tranquille, pacifiche, che non farebbero male a una mosca, la seconda, dai cosiddetti lecchini, che cercano di stare dalla parte dei più “forti”, che guarda caso sono sempre in alleanza col potere, quindi succubi del più prepotente. Poi esiste almeno un individuo con le caratteristiche del dittatore e se non sempre occupa il posto di comando, tenta di esercitare il suo dominio in modo abusivo, risultando spesso antipatico. Riccardo è una persona che attacca briga, capace di manipolare gli altri e di strumentalizzare il debole di turno per arrivare ai suoi scopi. In poche parole, si diverte a seminare zizzania. Un giorno accadde un fatto molto particolare che senza volerlo, sollevò un gran polverone, scatenando discordie e attriti tra gli impiegati. Fu il movente che determinò delle strane dinamiche, che trasformarono la situazione in grottesca e patetica.

Da questa specie di “commedia teatrale” che sto per raccontare, forse si possono trarre dei giudizi. Da soli tre mesi era arrivato Mario, un nuovo impiegato, bravo pittore che negli anni passati aveva persino goduto di una certa notorietà. Anche se abbastanza conosciuto, la sua arte non gli permetteva più di sbarcare il lunario. I tempi d’oro che gli avevano permesso di condurre una vita piuttosto agiata erano ormai finiti. Mario aveva un buon carattere e grazie a questo suo pregio riuscì ben presto a familiarizzare con tutti gli impiegati. Un giorno, dopo aver notato una pergamena incorniciata, in memoria dell’Assessore Paolo Colombo, ne rimase affascinato ed ebbe l’idea di realizzare il ritratto del caro collega passato a miglior vita, di cui tutti parlavano molto bene. L’ avrebbe donato allo stesso Municipio, anche se non aveva conosciuto di persona l'Assessore, sapeva, per sentito dire, che era stata una bellissima figura.

Nella Sala Consiliare erano appesi tanti ritratti, non solo pittorici, ma semplici foto ingrandite di tutti i sindaci passati, di cui tanti ancora viventi. Evidentemente il ritratto dell’Assessore sarebbe stato collocato in un altro ambiente, non essendo stato sindaco, magari nell’ufficio dove aveva lavorato per oltre trent’anni. L’Assessore infatti era andato in pensione lo stesso anno in cui era venuto a mancare. Al momento del decesso era vedovo e non aveva figli. Prima di realizzare il ritratto, i colleghi erano stati informati della simpatica idea, infatti aveva chiesto a qualcuno di loro una foto di Paolo in modo da poterne estrapolare l’immagine. Però il bello deve ancora arrivare. Il già menzionato, Riccardo, aveva l’ambizione di comandare e diventare sindaco, aveva anche la passione di scrivere poesie, almeno così diceva, quindi dopo la morte dell’Assessore, aveva commissionato un quadretto e fatto trascrivere a mano una sua poesia a lui dedicata, su pergamena e con caratteri sontuosamente eleganti. Il quadretto faceva decisamente bella figura, soprattutto perché inserita in un’ abbinata cornice.

A dire il vero, chi lavorava già da anni e conosceva molto bene i rapporti intercorsi tra l’Assessore e Riccardo, rimase un po’ perplesso, perché in realtà la profonda amicizia di cui spesso Riccardo si vantava, non era mai esistita. Riccardo aveva sempre invidiato Paolo, non solo per la carica che rivestiva, ma anche per le sue doti e per la sua carica umana capace di conquistare la simpatia del prossimo. I due colleghi si conoscevano sin da ragazzi, ma ciò non significava che tra i due ci fosse un vero e proprio legame affettivo! Quindi l’apparente generosità da parte di Riccardo, strideva un po’. Qualcuno pensava tra sé che quel il gesto amichevole altro non era che ipocrisia personale di Riccardo e forse non aveva tutti i torti. Quando Riccardo incontrava persone in Comune, le invitava ad ammirare la sua pergamena incorniciata, sicuramente per sfoggio al suo talento poetico o per la sua presunta generosità e non certo per mettere in evidenza l’effettiva validità della persona passata a miglior vita.

Tra l’altro il quadretto l’aveva appeso a proprio piacimento, senza interpellare nessuno, né tanto meno il sindaco o il segretario comunale, ma guai se qualcun avesse avuto da obiettare! A suo avviso, lui aveva il dominio della situazione. Fin qui tutto bene, il clima tra i colleghi era abbastanza tranquillo, ma nessuno si azzardava a dire la sua o a contraddirlo! Intanto gli impiegati aspettavano da un giorno all’altro il ritratto, perché la voce si era oramai sparsa. Mario era emozionato all’idea di fare la meditata sorpresa. Il giorno atteso finalmente arrivò, ma forse non era atteso proprio da tutti. Tanti non sapevano chi fosse veramente Mario, né conoscevano il suo passato successo artistico, soprattutto nel campo della ritrattistica, dove aveva avuto molte soddisfazioni morali ed economiche.

Quel giorno Mario arrivò in Comune un po’ prima del solito ed appese il ritratto all’ingresso. Stava benissimo, sembrava che ci fosse sempre stato. Dopo un po’ arrivò una collega, che era stata grande amica dell'Assessore e che lo aveva seguito nella sua malattia fino alla sua morte. La profonda amicizia si era consolidata soprattutto dopo che era rimasto vedovo, per cui la dipartita di Paolo era stata per la donna una grande perdita. Rosalinda, quando vide quel ritratto rimase sbalordita, sia perché non immaginava che Mario sarebbe stato capace di raffigurare il caro volto in modo così reale e fedele, tanto da sembrare vivo. Provò un brivido lungo la schiena e dai suoi occhi scesero lacrime di commozione. Non appena si fu ripresa ed un momentino rasserenata, abbracciò l’artista, si complimentò e lo ringraziò vivamente.

Poco dopo arrivò la donna delle pulizie e sussultò di gioia: “È lui! Paolo! Non ci posso credere! Complimenti a Mario” … e non finiva mai di ringraziarlo. Poi arrivò un’altra collega che esclamò: No! È proprio Paolo, che impressione! Non ho il coraggio di guardarlo!” Nel frattempo arrivarono altre persone che dovevano sbrigare qualcosa in comune, le quali assistettero con stupore alla emozionante scena degli impiegati davanti al ritratto dell’uomo tanto conosciuto e stimato. Intanto la nova si sparse ad eco, per cui vennero altri colleghi ad ammirare il capolavoro. Erano sussulti di approvazione e di meraviglia, di lacrime e di positivi commenti. Dopo un paio d’ore arrivò Riccardo, (il donatore della pergamena) vide il ritratto, lo guardò quasi con sdegno e dopo un po’, con rabbia esclamò: “Chi ha deciso di metterlo qui? Non può stare assolutamente! Non è il posto adatto! Il quadro deve andare via!”

Rosalinda, indignata per la tanta tracotanza, gli rispose a tono: “Come ti permetti? Stai scherzando?! Chi sei tu per decidere? Qui decide la maggioranza, se non addirittura il sindaco! L’Assessore era una persona stimata e amata da tutti e quindi merita di stare qui, nel luogo dove ha lavorato per tanti anni!” Riccardo era furibondo, non sopportava di essere contraddetto e cercò di farsi ragione dicendo: “Il mio caro amico Paolo era una persona molto schiva e non avrebbe mai voluto che un suo ritratto fosse appeso! Non lo avrebbe mai accettato! Sai da quanto tempo lo conosco?” Rosalinda rispose a tono: “Certo, ma da vivo! Anch’io sono molto riservata come lui e non metterei il mio ritratto appeso nel mio ambiente di lavoro, ma da viva! Dopo morta, non sarei io a esporre il mio ritratto, ma sarebbero i vivi a farlo, se ne avessero voglia e mi potrebbe fare solo piacere, perché significherebbe che avrei lasciato un buon ricordo di me!”

Riccardo però non si rassegnava a perdere la causa e continuava a replicare in modo concitato e pieno di rabbia, con la presunzione di parlare addirittura per bocca del defunto: “Se lui fosse qui direbbe queste parole: “Non voglio il mio ritratto!” Farebbe ribaltare tutto quello che c’è in questa stanza, compreso il quadro! Non avrebbe voluto neanche il funerale e invece gli hanno fatto questo enorme sgarbo! Lui adesso da lassù sta soffrendo per tutto questo!” “Sappi che se il defunto potesse parlare, la penserebbe secondo altri parametri che non appartengono alla logica umana terrena, per cui quello che tu stai dicendo è frutto non solo dei tuoi pensieri, della tua logica umana, ma soprattutto delle tue pulsioni che ti fanno agire in questo modo così esagerato e aberrante. Cerca di controllarti nel linguaggio e nei comportamenti! E bada bene che stando le cose come tu dici dovremmo eliminare anche la tua pergamena!” “No, la pergamena l’avrebbe apprezzata!”

Una collega intervenne al punto con decisione: “La pergamena sa di cosa mortuaria, sa di funerale! Invece il ritratto è qualcosa di vivo! Noi vogliamo ricordare Paolo vivo, non morto!” Anche due colleghi, succubi e plagiati da Riccardo, espressero il loro giudizio: “Ha ragione Riccardo! Qui deve restare soltanto la pergamena, dato che non spicca tanto, è sobria, quasi invisibile, mentre il ritratto è un pugno nell’occhio!” Rosalinda sconcertata replicò: “Ma tu sei per caso il medium che parla per bocca di Paolo? Sei suo padre? Cerca di restare umile e soprattutto calmo. Tu non sei il capo che decide! E poi, dimmi, dov’era tutta questa amicizia tra te e l’Assessore? Non vi vedevo mai insieme! Ero io la persona più vicina a lui, tanto che l’ho seguito fino alla fine nella sua malattia! Le persone si rispettano e si vogliono bene quando sono vive, non quando sono morte e solo per farsi belli agli occhi degli altri!”

Nel frattempo intervenne un altro collega: “È stupendo!” Mario era esterrefatto, disgustato dall’arroganza di Riccardo, ma ebbe il buon senso di restare impassibile e disse: “A me non interessa e se dovete litigare a causa del ritratto, me lo riporto a casa. Pensavo di fare un regalo gradito e mi dispiace davvero che sia diventato il quadro della discordia! Comunque sta a voi decidere. Avreste potuto almeno dirmelo sin dall’inizio, così mi sarei risparmiato il lavoro!” Arrivarono intanto altri colleghi, tra cui qualche lecchino del prepotente, per che pur di non scontrarsi con lui aggiunse alla discussione: “Ha ragione Riccardo! Qui il ritratto non può stare e poi non tutti hanno il coraggio di guardarlo, perché fa impressione la sua eccessiva somiglianza!” Altre persone non proferirono parola e restarono spettatori.

Riccardo non poteva tollerare che il ritratto appeso potesse togliere importanza alla sua pergamena con tanto di dedica, che aveva voluto esporre nel suo ufficio in memoria del presunto amico, che in verità non aveva mai stimato da vivo e verso il quale nutriva ancora invidia, anche da morto! Non solo, Riccardo nutriva invidia anche nei confronti del nuovo collega pittore- ritrattista, colui che era ben voluto dai colleghi e soprattutto apprezzato per il talento artistico e umano carattere. Cercava Riccardo di camuffare le vere motivazioni ed imbastiva pertanto la messa in scena, creando problematiche inconsistenti. Quel giorno le persone che arrivavano in Comune non potevano fare a meno di alzare lo sguardo sul ritratto ed ammirarlo, complimentandosi con l’artista. Riccardo invece non aveva pace e cercava di complottare qualcosa di strategico affinché l’opera pittorica potesse sparire da quel locale.

Essendo amico di Marisa, segretaria comunale, in qualche modo anche lei succube di Riccardo, cercò di strumentalizzarla per arrivare al suo scopo, la incontrò e la convinse a parlare con Mario. Sta di fatto che la segretaria convocò il pittore per proporgli di cambiare destinazione al ritratto stesso. “Cosa ne pensi, Mario, se il bellissimo ritratto fosse appeso nell’ufficio del sindaco? Sicuramente ne sarebbe felice!” Disse Marisa. A pensarci bene, non c’era alcun motivo ostativo, dato che il sindaco, essendo nuovo, non aveva mai conosciuto l’Assessore. Del resto, se il ritratto fosse stato collocato in quella stanza, nessuno lo avrebbe più visto, quindi sarebbe stato come nasconderlo. Mario rispose che non era lui a decidere, ma i suoi colleghi, poiché il ritratto era stato realizzato per loro e anche per il pubblico che aveva conosciuto Paolo. Disse inoltre che molto probabilmente il ritratto lo avrebbe riportato a casa sua, perché ci aveva ripensato. Così la segretaria parlò col sindaco e con tutti gli impiegati, informandoli che Mario probabilmente avrebbe ripreso il ritratto per portarlo via.

SECONDA PARTE

Il caso volle che Mario il giorno dopo si ammalasse e rimanesse a casa per una settimana. I colleghi preoccupati che al rientro si sarebbe portato a casa il ritratto, pensarono di fotografarlo e farne delle riproduzioni. La maggioranza era evidentemente a favore del ritratto donato. Quando Mario tornò al lavoro, dopo una settimana, con sorpresa, si accorse che in quasi tutti gli uffici si trovava un ritratto dell’Assessore, copia ricavata dall’ originale. In fondo ciò gli fece tanto piacere e quindi si rese conto che era giusto lasciare il ritratto in Municipio dove l’aveva collocato. Non aveva più senso riprenderlo e così lo lasciò dove si trovava ormai esposto alla vista di tutti. La persona sconfitta fu Riccardo, in quanto ferito nell’orgoglio e da quel momento costui se la legò al dito, A malapena continuò a salutare il nuovo collega, la cui colpa era quella di essere una persona originale e generosa. Riccardo, individuo tanto meschino e arrogante, arrivò ad odiare Mario per il suo talento artistico e persino il morto che venne a trovarsi più che mai al centro dell’attenzione.

Quell’essere malvagio non si sarebbe mai aspettato che adesso quasi tutti i locali del Municipio venissero “invasi” dal ritratto dell’Assessore per lui diventato una specie di persecutore, tanto che quando entrava negli uffici, teneva sempre lo sguardo basso, per non vedere il ritratto di Paolo che ormai se lo ritrovava ovunque. Dopo alcuni mesi si presentò in Municipio una donna sui trent’anni, per il rinnovo della carta d’identità. Il suo sguardo si soffermò sul ritratto di Paolo. Rimase emozionata e non smetteva più di guardarlo. Si rivolse all’impiegata che si trovava davanti e le disse: “Io sono la nipote dell’assessore del ritratto. L’ho riconosciuto subito… è mio zio!” L’impiegata rispose: “Veramente? Mi fa tanto piacere conoscere la nipote del compianto assessore Paolo! Suo zio è stata una figura molto importante per noi, una persona come poche.” La nipote riprese: “Mi piacerebbe sapere chi è l’autore del quadro e magari poterlo contattare. “Niente di più facile. l’autore è un nostro collega, si chiama Mario Brambilla e sta lavorando proprio nell’ufficio a fianco. Se vuole, può bussare alla porta e se in questo momento è libero, sicuramente la farà accomodare. La donna, un po’ emozionata, non se lo fece ripetere due volte, la ringraziò e si diresse verso quell’ ufficio.

Bussò e Mario disse: “Avanti!” La donna entrò nella stanza: “Buongiorno, sono la nipote dell’Assessore Paolo, il soggetto che lei ha immortalato”. “Buongiorno signora, si accomodi! Che piacere conoscerla!” “Il piacere è tutto mio! Complimenti di cuore. Lei è stato capace di far rivivere mio zio attraverso questo ritratto. Sembra vivo, sembra che ti stia guardando!” Io sono l’unica nipote e mi piacerebbe tantissimo acquistare l’originale dell’opera”. Mario un po’ imbarazzato rispose: “Non saprei…magari se mi desse un’altra foto potrei realizzare un’altra opera. Questo ormai appartiene al Comune. Sono tutti affezionati e non vorrei deludere i miei colleghi.” “La prego, ci tengo tantissimo! Ci pensi! Mi sono innamorata di questo quadro. Se vuole torno tra alcuni giorni! Non me lo può negare! Si tratta dell’unico zio che avevo ed a cui ero molto affezionata!” Mario rispose: “Torni tra quindici giorni e le darò una risposta”.

La donna lo ringraziò nuovamente, congedandosi. Mario si sentiva combattuto, non sapeva cosa fare perché non voleva deludere né la nipote, né i suoi colleghi che nutrivano affetto per l’Assessore, né aveva voglia di darla vinta a Riccardo che odiava quel ritratto. Quando tornò la donna e formulò ancora la richiesta, il ritrattista ribadì che avrebbe dovuto portargli un’altra foto in modo da poterne fare uno nuovo e come già detto, non poteva per ovvi motivi di correttezza cedere quello in questione. La nipote acconsentì e gli portò una bellissima foto, il lavoro richiesto sarebbe stato molto più impegnativo e complesso, dato che la foto era a figura intera, seduto con le gambe accavallate e con le mani in primo piano. In effetti la nipote se lo poteva permettere, essendo persona facoltosa e quindi senza problema di soldi. Passarono alcuni mesi e l’opera d’arte fu ultimata. Era un ritratto degno di essere esposto in un museo, non solo per la grande dimensione, ma soprattutto per la maestria con la quale l’opera stessa era stata eseguita. Alcuni giorni prima della consegna, Mario pensò di portare il quadro in municipio, sia per il piacere di farla conoscere e sia per stupire per la seconda volta i colleghi. Così una mattina arrivò un po’ prima.

Mario disse alla collega presente: “Sei pronta? Posso togliere la carta?” “Prontissima!” Il pittore tolse la carta e Rosalinda rimase senza fiato. Nel frattempo entrarono nell’ufficio alcuni impiegati che rimasero sbigottiti perché adesso il ritratto era ancora più impressionante dato che era a figura intera. Le mani sembravano vere… era un ritratto vivente! Altre esclamazioni, piccole urla di stupore, commenti, domande, ecc… Questa volta però nessuno si permise di proferir qualche parola in più, perché tutti sapevano che il quadro era destinato ad un privato. Ci fu soltanto emozione, meraviglia e i più innocui e sinceri non fecero altro che complimentarsi con Mario, mentre la pecora nera, Riccardo aveva il volto tirato e non poteva nascondere la sua espressione di disprezzo, anzi non si avvicinò nemmeno all’opera che guardò solo di sfuggita.

Riccardo non sapeva che il quadro fosse stato commissionato da un privato. Dopo un po’ si fece coraggio, si avvicinò a Mario e con aria di sfida, davanti ai molti presenti disse: “Adesso pensi di appendere anche questo mausoleo? Hai parlato col Sindaco? Lui non te lo permetterà, ne sono certo! E poi Paolo era un Assessore, non un Sindaco. Quindi non si potrà nemmeno mettere in sala Consiliare vicino agli altri! Lo vuoi capire?” Mario rispose: “Il problema non si pone affatto!...” Riccardo lo interruppe e sempre recidivo e pieno di sé, continuò a inveire contro di lui: “Tu non sei il padrone del Municipio, quindi questo quadro non rimane qui!” Nel mentre i colleghi che assistevano a questa specie di commedia, se la ridevano sotto i baffi, perché sapevano che il quadro non era destinato al Municipio, essendo stato commissionato dalla nipote di Paolo, ma preferirono non dire nulla, perché a quel punto pensarono di divertirsi un po’.

Qualcuno di loro volle andare più a fondo, recitando la parte: “Bravo Mario! Questo ritratto lo metteremo nell’altra sala di ricevimento, così lo vedranno tutti”. Evidentemente si trattava solo di una provocazione nei confronti di Riccardo, tanto per farlo agitare ancora un po'. Nel frattempo arrivò il Sindaco che guardò con ammirazione il superbo ritratto e disse: “Cosa sta succedendo?” Riccardo rispose con tono arrogante: “Mario vuole regalare al Municipio pure questo altro mausoleo, ma non c’è una parete libera! Non è stato già sufficiente donare il primo ritratto? Lei cosa ne pensa, signor sindaco?” Mario preferì non intervenire subito, soltanto per prendersi una piccola soddisfazione e perché era curioso di sentire l’evoluzione del discorso e l’opinione del Sindaco, il quale prontamente rispose:

“Come potremmo rifiutare un dono così prezioso? Quest’opera vale un occhio della testa, perché io me ne intendo di arte! Certo che ne sarei felice! Anzi, saremmo tutti felici! Ma prima sentiamo l’intenzione dell’artista”. A quel punto Mario, un po’ imbarazzato rispose: “Mi dispiace tanto signor Sindaco e la ringrazio per i suoi sinceri apprezzamenti, ma quest’opera è già impegnata. La committente è proprio la nipote dell’Assessore. Ho portato il quadro solo per il piacere di mostrarlo ai miei colleghi”. Il sindaco riprese: “Non si preoccupi, non è un problema, anzi mi scuso con lei se avevo capito male! Almeno però mi faccia fare una foto all’opera! Me lo permette?” “Certo, si figuri!” Alcuni colleghi pensarono di fare la stessa cosa e si avvicinarono col cellulare. Nel frattempo il quadro aveva attirato l’attenzione, perché chiunque arrivasse non poteva fare a meno di guardarlo e ammirarlo. Per Riccardo invece erano continue pugnalate, il suo disaggio era incontenibile. Una cosa era certa: si sentiva in quel momento come un cane bastonato…e taciturno si diresse verso il suo ufficio.

UN QUARTETTO

Dopo la morte di due anziani genitori, quattro fratelli, essendo rimasti celibi, restarono tutti insieme, nella casa paterna, dove avevano vissuto sin dalla nascita. Col tempo la loro convivenza si deteriorò e divenne sempre più turbolenta, poiché ciascuno di loro presentava delle caratteristiche caratteriali difficili alla convivenza. Arrivano ad affibbiarsi tra loro dei soprannomi: Brontolone, Miss Superbia, Attaccabrighe e Risparmione. Tutti e quattro mostravano intolleranza, datosi che riuscivano a vedere molto bene i difetti altrui, ma non a riconoscere i propri. Brontolone borbottava di continuo, facendo sentire sempre in colpa i fratelli. Borbottava persino se pioveva. Era burbero e continuamente di malumore. Risparmione risparmiava in modo esagerato, tanto da sacrificare sé stesso e gli altri. Ad esempio, cercava di accumulare il denaro che dignitosamente guadagnava. Potrebbe sembrare questa una qualità positiva, ma quando si esagera, non lo è affatto. Aveva deciso di condurre una vita stentata, al di sotto delle proprie possibilità, soltanto per il gusto di far crescere il suo conto in banca.

Se i fratelli gli facevano notare questo errato atteggiamento, rispondeva: “I soldi fanno sempre comodo. Sarebbe un vero peccato spenderli, quindi è giusto conservarli. In fondo siamo dei poveretti!”. Non si rendeva conto però che nutriva per il denaro quasi una forma di reverente adorazione. Non capiva che i soldi non devono servire fine a sé stessi, ma giustamente utilizzati per le esigenze familiari. Attaccabrighe cercava sempre appigli inutili per poter litigare e per questo risultava a tutti molto antipatico e criticava brontolone perché borbottava all’infinito e rimproverava Risparmione per la sua scelta di vita oltre al fatto che lui e gli altri fratelli non si potevano permettere il tenore di vita alto che invece meritavano. Non sopportava inoltre la sorella Miss Superbia e a sua volta Brontolone che gli rimbrottava il suo carattere pesante, perché attaccava briga senza stancarsi mai.

Miss Superbia si sentiva la migliore. Non sopportava i suoi fratelli. La sua superbia era tale da non riuscire a frenare quella lingua e a relazionarsi con gli altri in modo sereno, perché guardava tutti con aria di insufficienza e snobbava senza alcun riguardo. Un bel giorno i quattro fratelli si misero a tavolino per discutere della loro eventuale separazione, in quanto la convivenza era diventata davvero insostenibile, molto probabilmente perché con l’età avanzata i difetti si erano accentuati e la capacità di sopportazione diminuiva. Pensarono quindi di dover prendere finalmente l’unica decisione: vivere ognuno per conto proprio. Ovviamente bisognava affrontare dei problemi, soprattutto del tipo economico, dato che non avrebbero più potuto dividere le spese a risparmio e soprattutto chi di loro avesse tenuto l’appartamento di famiglia, avrebbe dovuto in equa parte risarcire i fratelli.

Ognuno di loro espresse una propria opinione, ma nel frattempo Brontolone continuava a brontolare, Risparmione andò in crisi perché i suoi risparmi sarebbero stati minacciati, Attaccabrighe si mostrò scontento e quindi fu pronto ad attaccare briga sentendosi contraddetto. Infine Miss Superbia pensava che l’opinione dei fratelli contasse poco perché non li riteneva alla sua altezza. Per tale motivo, dopo il grande litigio causato dai diversi punti di vista e non potendo arrivare ad una conclusione o ad un compromesso, i quattro fratelli, anche se a malincuore, continuarono a vivere insieme fino alla fine dei loro giorni. Il prezzo che dovettero pagare fu molto alto: non conobbero più la serenità. Esisteva solo un lato positivo: quando uscivano insieme, riuscivano a nascondere i loro grossi difetti, manifestavano una finta dolcezza che suscitava quasi un senso di benevola invidia.

Il quartetto aveva un punto in comune: dare molta importanza al giudizio degli altri e fingevano quindi di andare d’accordo, apparendo in società quasi perfetti. Tutti dicevano: “Quanto si vogliono bene questi fratelli! Che bello quando la famiglia è unita! Beati loro! Purtroppo invece fu appagata soltanto l’apparenza.

PARTE SECONDA

UN MATRIMONIO IMPENSATO

Roberto e Carmelo, due gemelli affiatatissimi, trentenni. Due gocce d'acqua: stesso volto, stessa carnagione, stessa corporatura, stesso carattere, vivevano in simbiosi, erano due persone amabili in tutti i sensi. Roberto era prossimo alle nozze, mentre Carmelo non aveva legami sentimentali. Tutti euforici e felici per il giorno atteso, ma proprio quel giorno successe uno spiacevole imprevisto: Roberto fu colpito dal virus intestinale della salmonellosi, con conseguente dissenteria e vomito. Tanto era grave la malattia, da non riuscire nemmeno a stare in piedi. Ahimè!!! Come si fa adesso? Non si può mandare tutto a monte! Ci sono di mezzo duecento invitati, non si può assolutamente rinviare la cerimonia e il trattenimento! Due mesi di preparativi oltretutto non possono essere annullati!

Carmelo ebbe a quel punto un'idea geniale: sostituirsi al fratello, ma solo per l’occasione cerimoniale, tanto nessuno se ne sarebbe accorto. E la sposa si sarebbe dovuta informare? In caso positivo che reazione avrebbe avuto? In quel caso i parenti dello sposo e lo stesso gemello, in complicità avrebbero dovuto inventare una bugia, ma utile per evitare di mandare tutto in fumo: Carmelo non sarebbe stato presente alla cerimonia perché molto malato, Roberto, lo sposo, sarebbe stato la controfigura sostituita dal fratello gemello, mentre agli occhi di tutti lo stesso “Roberto” doveva risultare malato. Del resto non si poteva dire la verità, perché in tal caso il matrimonio non si sarebbe potuto celebrare. Quindi si doveva necessariamente recitare la parte perché niente fosse compromesso. Però restava un dubbio. La sposa doveva essere informata? E se si fosse accorta dello scambio di persona? Non si sarebbe forse aggravata la situazione? Se Roberto le avesse inventato una bugia, avrebbe rischiato di rompersi persino il legame ancor prima di essere sposati. Un vero dilemma. Ecco perché sarebbe stato più corretto se la futura sposa fosse stata messa a conoscenza.

A quel punto i due gemelli presero una decisione, probabilmente quella più saggia: Roberto telefonò a Sonia per spiegarle tutto e per proporle la strategia che avrebbero attuato a insaputa di tutti e per capire se lei fosse stata d'accordo a recitare la sua parte. Mancavano poche ore e si doveva decidere in fretta. Soltanto i genitori dei gemelli ovviamente erano al corrente del momento assai critico. La sposina rimase di stucco nel sapere il suo futuro marito aveva contratto proprio nel giorno più inopportuno il virus ed ovviamente scoppiò a piangere disperatamente. Quando si riprese, accettò a malincuore la proposta, visto che non aveva altra scelta. Arrivò l'ora della cerimonia. Logicamente agli occhi degli invitati, Carmelo era assente e i familiari dei gemelli dovettero quindi imbrogliare con una bella bugia: il fratello gemello stava molto male. La sposa piangeva, ma non di certo per l'emozione, ma di certo per non poter condividere quei momenti di gioia e commozione col suo vero sposo. Ebbe momenti di pentimento per avere acconsentito ad una simile messa in scena, lo aveva fatto solo per poter soddisfare la forma e per non creare scompiglio e disagio tra gli invitati. Pensava a Roberto a casa da solo sofferente e senza poter vivere la bellissima ed unica esperienza del suo stesso matrimonio.

Nel frattempo Roberto, a casa, soffriva in silenzio, anche moralmente. Valeva la pena usare una simile strategia? L’idea comunque non era stata sua e questo in qualche modo la consolava. Si notava l’imbarazzo tra la coppia al centro dell'attenzione, soprattutto quando gli invitati li incoraggiavano a baciarsi. Non potevano lasciarsi andare, altrimenti Sonia avrebbe avuto dei rimorsi di coscienza, poiché sarebbe stata infedele a suo marito e Carmelo avrebbe indirettamente tradito il fratello proprio con sua cognata. Dovevano quindi per forza contenersi, nonostante l'incitamento ad effusioni amorose, come sono soliti chiedere gli invitati. I presenti pensavano che gli sposini fossero timidi, ma sapevano anche che non lo erano mai stati. Come mai questo cambiamento? Sonia e Carmelo dovettero giustificare il loro atteggiamento piuttosto inibito, perché non amavano fare effusioni in pubblico. Intanto Sonia mostrava una tale ipersensibilità, tanto da piangere durante quasi tutto il tempo della cerimonia. Evidentemente quel pianto non era per l'emozione, ma per la tristezza e per una sorta di rabbia.

La cerimonia e il trattenimento tutto sommato andarono abbastanza bene, col particolare che nessuno sapeva che il presente sposo non era Roberto, ma Carmelo. A questo punto il lettore forse si porrà una domanda: Per la chiesa e d’innanzi a Dio il matrimonio può considerarsi valido? Ciò che conta è l’intima intenzione, d’accordo, ma ripeto: il matrimonio in un caso del genere può considerarsi effettivo? A parte tutto questo e la sofferta cerimonia, la storia ebbe comunque un lieto fine, perché nel tempo che seguì, la coppia ebbe una vita felice e il loro legame amoroso durò per sempre. Il fratello gemello, Carmelo, invece rimase single e del matrimonio ebbe solo il ricordo di quella specie di farsa che dovette impersonare per salvaguardare la memorabile e inconsueta, anzi unica cerimonia nuziale in cui era stato protagonista. Tutto sommato, è bellissimo avere un fratello gemello con una somiglianza così impressionante! O no?

CHE STRANA LA SCUOLA!

Filomena sembrava una degente che si aggirava tra i corridoi di un ospedale, invece era una docente di sostegno che passeggiava per la scuola. Avrebbe avuto bisogno lei di un sostegno continuo, per come si muoveva e per come si perdeva con lo sguardo nel vuoto. Un giorno si cosparse di colla le labbra, pensando di mettersi il burro cacao, questo dopo avere incollato un foglio sul quaderno con il burro cacao. Aveva la mania di masticare la gomma durante le sue lezioni. Ecco perché non rimproverava mai i suoi alunni se masticavano qualche cicca! Un’altra prof (di matematica) veniva in classe con due bacchette di legno, quelle che usano i maestri di musica per dirigere l’orchestra. Erano di suo marito, musicista, ma lei le utilizzava per picchiarle sulla cattedra quando doveva richiamare i suoi scalmanati alunni. Quando se ne rompeva una, utilizzava l’altra.

La prof. di tecnologia invece terrorizzava con la sua voce: quando perdeva le staffe, urlava con voce squillante e perforante, tanto che la sua collega di sostegno doveva subito indietreggiare affinché non le si perforassero i delicati timpani. Era una malcapitata in quella classe, anche perché essendo cagionevole di salute, era costei sensibile ad ogni rumore, persino al suono della campanella. infatti ad ogni cambio dell’ora si premeva le mani sulle orecchie. In quella scuola c’era di tutto. Un’altra prof. aveva una mania e la mancanza di autocontrollo: andava a caccia di brufoli e punti neri da spremere, ma non si limitava ad occuparsi dei suoi, ma anche di quelli del prossimo. Tanto più difficile era eliminare i brufoli e i punti neri, tanto più aumentava il suo appagamento. In pratica, tutte le mattine, prima di fare lezione, si aggirava per i banchi degli alunni e toglieva ogni imperfezione che notava sui loro volti. Chi non si voleva sottoporre alla sua pulizia del viso, veniva minacciato di essere interrogato. Era un’estetista mancata. La prof. era proprio fuori di testa!

La docente di musica invece aveva l’abitudine di lasciare il cellulare sempre acceso perché aspettava la chiamata di qualche amante di turno. Gli alunni erano dapprima colpiti dal suo stranissimo atteggiamento, ma poi ci avevano fatto il callo. Lo squillo del cellulare consisteva in un pianto di neonato. Lei rispondeva e dopo aver parlato in fretta e furia, chiudeva e rivolgendosi agli alunni diceva: “Adesso sì che il bambino non piange più!” Credeva di fare una battuta spiritosa solo per minimizzare la sua condotta inconsulta. Spiccava inoltre una giovane docente, indecente, non solo per il suo strano abbigliamento eccessivamente provocatorio, ma anche per il look: capelli verdi e viola e pearcing sul naso. Da non credere! Un giorno, un gruppo di genitori decisero di andare a parlare con la preside per lamentarsi di questi strani insegnanti, perché era davvero inaudito che i loro figli potessero avere come docenti delle persone del tutto squilibrate.

Ma quando videro la dirigente, capirono all’istante che non ci sarebbe stato niente di buono da aspettarsi da lei! Era questa una sessantenne in minigonna, molto scollata che mostrava i tatuaggi sgargianti ricoprenti le braccia, le spalle muscolose ed un trucco tanto accentuato da sembrare una prostituta. Masticava la chewngum a bocca aperta in modo sfacciato. Sembrava permanentemente sconvolta, aveva un’espressione seria, il volto appariva inquietante e minaccioso. Rivolgendosi ai genitori disse: “Di cosa avete bisogno?” Al punto, questi, imbarazzatissimi, se ne andarono senza nemmeno proferir parola. Ahimè! La preside era peggio dei docenti! Per questo motivo, pur conoscendo bene gli insegnanti taceva, infatti per lei era del tutto normale e non li riprendeva mai. È superfluo dire che la scuola sembrava un reparto psichiatrico. I genitori degli alunni decisero di ritirare i propri figli da quello strano istituto e li iscrissero in uno più sobrio, educativo e rassicurante. Infine i docenti dovettero essere trasferiti in altre sedi, perché non essendoci più iscritti, le classi furono annullate.

PISPUSU, CANARINO SAGGIO

Pispisu viene rapito da un’aquila con tutta la gabbia. Stava tranquillo, nel balcone della famiglia che lo accudiva con tanto amore. Il possente rapace lo porta in volo tra gli artigli, in un luogo molto lontano, indefinibile. L'aquila si mise a parlare: Povero uccellino, come ti chiami? Lui, impaurito, risponde: “Pispisu. Dove mi stai portando?” “Ti porto in un posto nuovo in cui tu conoscerai la libertà.” “Ma io ho già la mia libertà!” “Stai forse scherzando? Chiuso in una gabbia, vorresti farmi credere che tu sia un canarino libero? Io sono libera… non tu!” “Intanto non puoi paragonarti a me, perché tu sei un'aquila. Tu cosa ne sai della prigionia o della libertà?” Pispisu, improvvisamente si era messo pur esso a parlare come fosse un filosofo, tanto da sbalordire l'aquila:

“ La libertà. Cos’ è la libertà? La possibilità di fare il male, di annientare con le bombe, di sfruttare il prossimo? La vera libertà dovrebbe appartenere al bene comune, vediamo bene cosa invece capita. Io sono chiuso in questa gabbia, ma vedo il cielo, il tramonto, osservo le montagne, il paesaggio, ascolto i rumori esterni e mi basta. Sento il canto degli uccelli, ho il cibo, l'acqua e canto a mio piacimento. Se sapessi la soddisfazione e la gioia che provo nel cantare! Questa per me è la felicità.” “È così poco per te la felicità?” “Sì, la felicità è il sapersi accontentare di quel poco che ci viene dato, è il saper dare valore alle cose semplici. La felicità è uno stato mentale, così come lo è anche il sentirsi prigionieri.” “Cerca di essere più chiaro!”

“Tanti esseri umani sono prigionieri delle loro congetture, limitazioni, stupidità, schiavi del potere psicologico che altri pari esercitano su di loro. Sono prigionieri e non lo sanno perché non hanno acquisito quella consapevolezza che li fa vedere oltre. Poi esistono anche le persone che si sentono imprigionate dalla burocrazia, si sentono oppresse e in effetti credo che non siano felici. Noi pennuti anche vivendo in una gabbia restiamo liberi nella mente, perché non abbiamo ambizioni, a differenza dell'uomo. L'unica ambizione sarebbe quella di volare in cielo, ma non ci è permesso. Per questo motivo non mi lamento e del resto ci si abitua! L'essere umano sembra che abbia la libertà, ma spesso non è così, perché è prigioniero delle sue cattive abitudini e dipendenze. Penso che tutto sommato facciano eccezione solo gli individui che non essendo prigionieri di certe dipendenze psicologiche e di cattive abitudini, o vizi, essendo liberi nel pensiero e padroni di sé stessi, possano godere di uno stato di libertà. Anche questo però è relativo. La parola libertà è molto bella perché tutti sognano o aspirano alla libertà, ma è sempre relativa e non esiste in senso assoluto, persino anche per noi animali. Finché siamo soggetti alle leggi della materia, non avremo mai la libertà assoluta e non ce ne rendiamo conto.

Chi ama è libero ma nello stesso tempo soffre, poiché l'amore è anche sofferenza e questo è il risvolto della medaglia. L'essere umano commette sovente un errore madornale, spesso va alla ricerca di una falsa libertà e quando ci si imbatte, si ritrova come intrappolato in un tunnel da cui farà fatica poi a uscirne fuori. Esempi lampanti: dipendenza da alcol, gioco d'azzardo, droga.” L'aquila sentendo parlare Pispisu in questo modo, si commosse e lo riportò a casa sua. Pispisu era felice, ringraziò l'aquila per la sua comprensione e anche perché non gli aveva fatto nulla di male. Lei era stata arricchita da Pispisu per i suoi saggi discorsi. Non si aspettava che un minuscolo uccellino potesse esprimere concetti di tale elevatura. Pispisu fu collocato sul balcone, da cui tre giorni prima era stato prelevato. Quella ormai era la sua casa, era ben curato ed amato dalla famiglia che lo aveva acquistato. In seguito gli portarono una vivace canarina bianca e la famiglia aumentò. I meravigliosi e teneri canarini riuscirono a dare tanto colore e allegria alla famiglia.

STORIE COMICHE SU PISPISU

“Quando andrete in viaggio per il Trentino a chi affiderete il canarino?” “Affidare? Assolutamente no! Lo porteremo con noi!” “E come affronterete il viaggio in macchina?” “Leghiamo la gabbia sul portapacchi, così Pispisu potrà volare contro vento e si divertirà un sacco.” “Ma no! In questo modo l’uccello morirà! Qualsiasi animale non lo sopporterebbe, figurarsi un uccellino!” “Non hai capito che stavo scherzando?” “Dimmi, ma allora dove lo metterete?” “Viaggerà nella gabbia sul cruscotto, così potrà guardare la strada, non soffrirà mal d’auto e non vomiterà.” “Quindi così non morirà!”

“A proposito, ma lo sai che l’eventualità l’avevamo messa già in conto? Lo sai che abbiamo stipulato una polizza vita per assicurare Pispisu in caso di morte improvvisa? Adesso però ho avuto un ripensamento: forse non avrei dovuto fare quell’ assicurazione! Il contratto l’abbiamo stipulato io e mio marito e ho paura che lui mi faccia qualche scherzo per incassare il premio, liquidando il canarino. Sono davvero preoccupata. Cosa mi consigli di fare?” “Non saprei cosa dirti, comunque usa la tua intelligenza, fai una cosa: vedi quanti soldi vi darebbero in caso di morte dell’uccello e poi fatevi bene i conti a tavolino, cioè valutate bene se il gioco vale la candela, cioè se per voi è più importante Pispisu oppure i soldi.” “Sai, siamo un po’ euforici perché dobbiamo comprare la femminuccia per Pispisu. Sarà bianca”. “No! Non compratela bianca, perché sembrerebbe malata o anemica e lui forse la rifiuterebbe!” “Ma sa dici? Cosa c’entra il piumaggio con l’incarnato? Allora tutti i cigni, i gabbiani e tutti gli altri volatili bianchi sembrano malati?”

“A parte tutto, abbiamo cambiato idea: cercavamo una canarina bianca per Pispisu e siccome non l’abbiamo trovata, abbiamo deciso di acquistare una canarina di colore, non intendo tutta colorata, ma nera! Così potranno fare figli mulatti e si migliorerà la specie. Tu cosa ne pensi?” “Volete prendere una canarina negra? Non lo fare! Sembrerebbe il brutto anatroccolo! Compratelo di tanti colori che danno più allegria! Gli esseri umani di colore sono belli, mentre i volatili neri non mi piacciono proprio.” “Mi hai quasi convinta, forse è meglio aspettare un po’ prima di decidere, del resto lui adesso sta bene da single.” “Sai, sono in ansia per Pispisu, perché abbiamo l’impressione che sia di giorno in giorno sempre più sbiadito! Eppure io l’ammollo lo faccio sempre per come mi hanno prescritto, con il detergente intimo, che è delicatissimo! Come è possibile? Non sarà che stia diventando anemico e perciò bisogna cambiargli l’alimentazione? Mi sa che andrò da un ornitologo dietologo. Faccio bene?” Dopo un po' di giorni, Fabiola decide di fare un altro scherzo alla sua più cara amica dato che la sua ingenuità superava ogni limite.

“Sai che oggi in fiera abbiamo comprato la canarina? Un vero affare! L'abbiamo comprata in una bancarella di cinesi a soli 9 euro! C'erano canarini di tutti i colori mai visti e siccome bianca non c'era, ne abbiamo presa una di un altro colore. Questi cinesi hanno un negozio a Gallarate, vendono anche cani, ma non quelli cotti e comunque è stato un affare. Hanno detto che il colore si chiama nero di china punta fine, dato che ha il becco fine.” “Ma è sicuro che si tratta di un canarino? Non esistono di questo colore! Non è che sarà un merlo?” “Ma lo sai che mi hai messo un dubbio? Ho visto su internet e non esistono canarini neri e poi adesso che rifletto un po', ho notato che la dimensione della canarina è più grande di Pispisu! E se fosse davvero un merlo?” “Essendo tu molto affezionata a Pispisu, ritengo opportuno informarti che porteremo il piccolo volatile dal veterinario per essere sterilizzato, così non avremo la rogna dei figli e soprattutto potrà spaziare liberamente con la sua consorte nella sua spaziosa gabbia senza intrusione altrui.”

LE IMPRONTE DI CAPRA

Serena, di nome ma non di fatto, sposata e senza figli, probabilmente non aveva delle serie preoccupazioni e senza dubbio era una persona caratteriale che si divertiva a fare dispetti e scherzi anche pesanti al prossimo. Il suo goliardico piacere lo trovava nel creare problemi agli altri. Ogni giorno maturava un’idea nuova, buona per fare indisporre gli sprovveduti e bonari vicini. Viveva in una villetta singola affiancata da altre due villette, una a destra, con un pezzo di terreno con delle capre e una a sinistra col suo bellissimo orto. Amando seminare zizzania, la donna architettò un giorno uno scherzo a dir poco diabolico: distruggere l’orto del vicino, per poi far credere che l’artefice non fosse un essere umano e che tanto meno potesse essere indiziata lei stessa, ma una delle capre dell’altro suo limitrofo vicino di casa. Ma come avrebbe potuto realizzare il suo bisbetico progetto? Non fu difficile: si presentò dal macellaio, al quale chiese un paio di zampe di capra, poi si procurò dei trampoli e vi attaccò le zampe stesse.

Durante la notte entrò nella proprietà presa di mira, salì sui trampoli e camminando su questi, calpestò tutto l’orto, distruggendolo completamente. La mattina successiva, i proprietari della villetta trovarono il piccolo appezzamento di terreno in condizioni pietose ed ovviamente anche le impronte di capra. Amareggiati stupiti e furibondi, andarono ad inveire contro i vicini dell’altra villetta, accusandoli di aver fatto entrare la capra nel loro orto. I due coniugi anziani proprietari delle capre, pur essi sbigottiti negarono tutto, ed assicurarono che era impossibile per una loro capra scappare dal recinto ed entrare nell’altra proprietà e che quindi, a loro avviso, era soltanto un pretesto per litigare, ma quando furono invitati ad entrare nell’orto per poter verificare e vedere coi loro occhi le impronte della bestia indiziata, rimasero di stucco. Non potevano spiegarsi come mai la capra avesse potuto arrivare a tanto. Logicamente, dalle parole passarono costoro ben presto alle vie di fatto.

Intanto la bizzarra e perfida donna, facendo l’indifferente assisteva al litigio e se la rideva di gran gusto. Aveva coronato il suo perverso desiderio. Nessuno avrebbe potuto immaginare, se i fatti non si fossero scoperti per puro caso dopo anni, che a causare quel pandemonio era stata la vicina di casa “Serena” che si era astutamente servita di un paio di zampe di capra legate a due trampoli.

LA ZIA ARPIA

Due sorelle sessantenni, Federica e Matilde, erano agli antipodi caratteriali: Federica era troppo ingenua e senza carattere, mentre Matilde era molto impulsiva e prepotente. L’unico passatempo della seconda era quello d’ intromettersi nella vita privata dei suoi parenti ed in particolare della sorella, che non era mai capace di prendere una decisione. Da premettere che Federica non si permetteva mai di dare dei consigli non richiesti alla sorella, essendo molto discreta, a differenza di Matilde, che si intrufolava nei fatti altrui. Federica aveva due figli sposati, di cui uno senza figli, che usava sperperare il denaro nel gioco d’azzardo, mentre l’altro aveva tre figlie ed era piuttosto parsimonioso, con la testa sulle spalle e molto corretto. Datosi che Federica aveva un debole per il figlio meno assennato, aveva già stilato testamento dei beni da lasciare in eredità, assegnando al prediletto una parte molto consistente, ovvero due appartamenti. La donna era stata davvero incosciente, oltre che passionale, manifestando palesemente la preferenza per uno dei due figli.

Trattando il figlio malvisto alla stregua di un cane, ed avvantaggiando l’altro, aveva commesso una madornale ingiustizia e come se non bastasse, la prima cosa che fece il favorito fu quella di vendere i due appartamenti, sperperando nel giro di cinque anni tutto il ricavato. La madre, proprio perché conosceva la debolezza del figlio, non avrebbe dovuto fare una cosa del genere, ma piangere sul latte versato non serve a riparare il danno fatto. Tuttavia, il figlio svantaggiato, riuscì a perdonare sia la madre che il fratello. La zia Matilde, come se nulla fosse accaduto, mostrava approvazione per quanto fatto dalla sorella, nonostante la pessima fine che fecero quei due appartamenti. Va detto che anche lei nutriva una speciale predilezione per quel nipote dissennato, sconoscendo “forse” il vizio di cui soffriva. Federica, come se non bastasse, adesso cercava pure di intromettersi nella scelta della sorella, la quale, avendo avuto in eredità dai suoceri un’enorme mansarda, aveva pensato di intestarla all’altro figlio, anche per compensare in qualche modo la discriminazione commessa.

Ma la zia Matilde, riuscì a convincere la sorella, perché dirottasse pure questa volta la sua scelta a favore di quel nipote scavezzacollo, adducendo la futile scusa che l’altro non era bisognoso, avendo già un suo apprezzabile stipendio da lavoro. Sta di fatto che anche questa volta, Federica, si lasciò condizionare dalla sorella e fu così che il solito figlio sgradito, rimase ancora una volta a bocca asciutta, La storia si era ripetuta. Il beneficiario mise in vendita il terzo appartamento e sperperò tutti i soldi sui tavoli del casinò.

Le due sorelle non mostrarono segni di pentimento per ciò che avevano combinato, anzi… sembravano pure soddisfatte. Un giorno Matilde, ingenuamente riferì al figlio diseredato di aver subito pressioni dalla sorella e questo se ne risentì amaramente. Tutto sommato però riuscì ancora a perdonare la madre, ma non la zia che non aveva diritto alcuno di dare consigli preferenziali e del tutto inappropriati. Di conseguenza decise di chiudere ogni rapporto con la parente zia, in quanto persona distruttiva e maligna, che in età avanzata, causa proprio del suo pessimo carattere, restò sola e abbandonata persino dai suoi stessi figli. In seguito, il diseredato si allontanò persino dal fratello che aveva ormai superato i limiti della decenza e della tollerabilità. Continuando a perseverare nel gioco d’azzardo, il vizioso finì a mendicare sulla strada. Morale della favola: “Chi troppo vuole, nulla stringe!”

IL PLAYBOY

Il gaudente impenitente, poco elegante, se pur aitante, corteggiava le sartine con battute un po’ sciocchine, con battute poco amene corteggiava le rumene. Ed il tempo passò in fretta però mai s’innamorò. Lui cercava un passatempo con le donne del momento. Si stufava e le lasciava, dopo un poco le cambiava!

Ma quel tempo ormai volò e lui vecchio si trovò, novant’anni già suonati senza mai storie importanti. Delle sue glorie restava il ricordo ormai distante: or cambiava la badante!

NEL MEZZO DEL CAMIN

Nel mezzo del camin di maestra Vita mi ritrovai dinanzi ad una belva oscura che la diritta via avea smarrita. Un gigantesco ragno si aggirava, per la rugosa legna scivolava. Fui combattuta... Il suo destino era ad un filo appeso, ma non certo quello che lui filava: decidevo io sulla sua sorte! Bastava un colpo solo e l'avrei preso!

"Pur se insignificante che colpa ha se l’ aspetto suo è repellente e non rassicurante?" Così si presentava al mio pensiero dominante quella creatura tanto orripilante! Già la mia mano era in procinto di colpire il grosso capo del ragno arzillo e affaccendato, che con dedizione e competenza, tesseva la sua famigerata trappola in quel camino scuro per eccellenza. "Senza aver frequentato alcuna scuola, è il più abile tessitore, oltre che esperto scalatore!"

Mi distolsi da quel pensiero insulso e stravagante. Mi voltai ancora, osservando la creatura beffarda, sconcertante, intenta a costruire disinvolta la sua insidiosa tela, con una sorta di stupore, questa volta. "Ma che diritto ho io per sopprimere un esserino così indifeso e innocuo? Se fossi io nato ragno? Preoccuparmi degli innocenti insetti che dall'astuto mostro si lascerebbero irretire e non di lui che per procurarsi un pasto, per istinto agisce?

Esisterà un Responsabile che avrà ideato creature simili? Ma lui è tranquillo e non mi tocca! Io non lo guardo!" Nel mezzo del camino della maestra Vita ancora il ragno tesse speranzoso. Lasciamo spazio al fato, non pensiamo alla bestiola ardita! L'uomo, del resto, spesso infingardo e ammaliatore, è come il ragno. Nell'insidiosa vita trama con cura e con ingegno per catturare malcapitate prede, per guadagno, sovente senza lasciare segno.

LA SIGNORA SPUTAFUOCO

La signora Sputafuoco è un pericolo, non è un gioco! Se apre bocca fa baccano e un grande danno notte e giorno, tutto l’anno. La signora quando passa fa paura all’uragano. Col suo sguardo minaccioso sputa fuoco da ogni poro e ogni parola la pronuncia con l’intento di una lama di un coltello. Agitata, parla sempre con passione, ma a sproposito, per colpire gli individui con molta cura e dedizione. Questa donna è temuta dalle vipere che ha stordito, Al suo arrivo fa scappare pure i cani, le zanzare e i pellicani! Mica passa inosservata la signora Sputafuoco! Sarà sempre biasimata e davvero poco amata. Rende succube il marito, non lo tocca con un dito, lo stordisce come un tuono.

Riesce a farlo pur tremare col suo dire e col suo fare e l’ assilla senza tregua, sempre pronta ad additare. La signora è affaccendata nel lavoro preferito: sa tramare, fa star male, fa soffrire le persone in mille modi, ha la lingua senza freno. La sua mente è già un inferno! La signora se la sognano di notte, hanno gli incubi, s’intende! Bimbi, vecchi, giovani fuggono e persino i paralitici se la svignano come fulmini e saette nel sentire questo nome: Sputafuoco. Vi assicuro, non è un gioco! Comandato a bacchetta dalla donna maledetta, il martire pentito di aver detto: “Sì”, quel giorno, è avvilito, rinsecchito. Il divorzio è solo un sogno assai balzano per il “pollo” ormai irretito. La signora non lo molla! Resta solo una speranza a quest’ uomo ormai fallito: augurare alla consorte di passare a miglior vita, prigioniero della sua cattiva sorte.

LA SOBILLATRICE

La sobillatrice, vile, manipola meschini e venduti individui, stravolge i fatti a suo piacimento per complottare contro la vittima un terroristico attacco morale, infliggendo un lento e continuo tormento. Abominevole, vendicatrice, è sempre pronta a dover mentire, catturando gente, ingenua o infingarda, inducendola persino al tradimento, alle spalle del bersaglio di turno, per creargli poi un astuto tranello. Si crede infallibile con la sua slealtà. Aizza gli amici per arrivare al traguardo, subdolamente, non affrontando il nemico di petto. Il suo obiettivo è soggiogare chi ha autorità per poter demolire l’agognato martire.

L’infima donna sprigiona veleno e i più sensibili le stanno lontano. Durezza trapela l’espressione del volto, il suo falso sorriso è davvero inquietante. L’alito emana odore di zolfo. Non ha mai conosciuto umiltà, né lealtà, ma soltanto un finto rispetto, potere, vanità. Parla pacata e con tono deciso vorrebbe ammaliare e, all’improvviso la biforcuta lingua è pronta all’attacco, senza pietà, né dignità. Sarebbe stupendo vivere serenamente, attorniati da tante persone belle, sincere, piuttosto che farsi contaminare da gente invidiosa, viscida, infame. Purtroppo si vive in questo Pianeta, colmo di inganno e senza cuore. Bisogna quindi essere arguti, guardarsi e proteggersi da iene e dai lupi.

Alla sobillatrice la sua perfidia ricadrà, come una valanga la travolgerà. Imprigionata nella sua trappola, la predatrice si troverà e finalmente preda sarà. Forse il perdono riceverà, solo se un giorno si pentirà! Ma sempre sola lei resterà. Questa donna, a tempo dovuto, dovrà fare i conti con l’Assoluto. Calunnie e zizzania che ha seminato le porteranno il conto, non ancora pagato. IL TERRORE DELLA SCUOLA Il terrore della scuola è un donnone e fa la spola. Sfida tutti gli insegnanti che le capitano davanti. Son passati i vecchi tempi quando ogni genitore non metteva in discussione il giudizio del professore. Or son tutti avvocati, sospettosi e diffidenti, non son più indiziati i figli, ma lo son tutti i docenti! Il suo volto minaccioso non si addice a una signora! Non si sa cosa vuol fare, con frequenza attacca briga.

Sempre e ovunque vuol parlare fuori luogo. Impulsiva, mai prudente, la sua lingua biforcuta fa scappare tanta gente e il suo modo impertinente fa indignare chi la sente. Altezzosa e presuntuosa spesso critica ogni cosa. Indispone chi è presente col suo fare prepotente. Chi la incontra la allontana questa donna assai balzana. Tra i ragazzi, trovi i belli, trovi i brutti, sempre quelli. Non son tutti farabutti! Gli studenti l’ hann chiamata: Il terrore della scuola. Non si stanca di far spola la temibile signora.

PARTE TERZA



STORIE VERE

LO SCROCCONE

Io e mio marito, grazie alla comune attinenza artistica, in passato avemmo a che fare, “anche se solo occasionalmente” con dei vip del mondo dello spettacolo. Questo accadde grazie alla nostra attività artistica svolta a Taormina, ma anche grazie al lavoro saltuario di animatori caricaturisti, ingaggiati da Agenzie di Spettacolo, in occasione di convegni e feste private anche importanti. Il bel periodo risale ai primi anni ’90, quando il lavoro nell’ambito artistico andava a gonfie vele ed erano tempi d’oro un po’ per tutti noi. Una volta, durante la festa di compleanno di un imprenditore di Agenzia di Spettacolo, presso una discoteca di Milano, tra le tante conoscenze instaurammo un rapporto di amicizia con il noto attore comico di cinema e televisivo Pietro Ghislandi. Ci colpì, oltre al suo spiccato talento artistico, la sua affabilità, simpatia e semplicità…non si dava affatto delle arie. Mostrava persino stupore per noi due, in quanto coppia affiatata e accomunata dalla stessa passione per l’arte figurativa.

Ricordo che dopo circa un mese, io e mio marito pensammo di telefonargli a casa, per salutarlo ed invitarlo ad una nostra mostra di pittura. Non c’era, ma potemmo però ascoltare la segreteria telefonica. La voce registrata sembrava quella di un bambino che parlava in modo delizioso, molto velocemente, dicendo che lo zio Pietro non era in casa e seguivano alcune frasi molto divertenti. Il tono di voce era alquanto comico, non solo per la pronuncia e per il modo colorito di parlare, ma anche per il contenuto. Evidentemente quella era la voce di Pietro che era tra l’altro un ottimo imitatore. In un’altra occasione di un Convegno a Milano, conoscemmo l’attore Raul Cremona e dopo un po’ di tempo, tramite la stessa Agenzia di Spettacolo, fummo ingaggiati insieme a lui per un lavoro a Rimini, presso la famosa discoteca “Il Pascià” in cui c’erano parecchi artisti, attori mimi, giocolieri, ballerine che animavano la serata. Noi eravamo gli unici caricaturisti. In un’altra occasione di lavoro, fummo a Pescara, in occasione della festa dei calciatori del Pescara stesso, che festeggiavano il passaggio di categoria dalla serie “B” alla serie “A”. C’era persino l’Arcivescovo, tifoso della fortunata squadra, che ballava insieme a tutti gli invitati. Fu una serata indimenticabile.

In quell’occasione affrontammo il viaggio in auto da Milano con Raul Cremona, con il quale parlammo a lungo durante il tragitto. Ci colpì la sua semplicità e l’eccentricità di persona davvero simpatica. Non era assolutamente vanitoso. All’epoca, l’attore era comunque ai primordi del successo televisivo. Un’ altra volta invece, io e mio marito, sempre negli anni’ 90, conoscemmo a Milano un musicista di fama internazionale, se non addirittura mondiale, in occasione di un suo concerto. Non farò il suo nome. Non era italiano, ma parlava molto bene la nostra lingua e ci diede un’ottima impressione. Persona molto raffinata, intelligente e colta. La sua bravura era strabiliante. Dopo il concerto, un nostro amico, pure musicista, ci fece le presentazioni e tra noi s’ instaurò un certo amichevole rapporto. Una sera lo invitammo a cena insieme all’amico comune; ricordo che fu una magnifica serata e durante la quale, ovviamente, il tema musicale ebbe la miglior parte. Questi rimase incantato dai nostri quadri, così come dimostrò chiaramente tanta stima nei nostri confronti… e la cosa fu reciproca.

Tempo dopo, il personaggio ci telefonò per chiederci il favore di poter fare noi da garanti nei suoi confronti, in modo tale che potesse ottenere la cittadinanza italiana e così restare a Milano per lavoro. Grazie all’amico comune, il quale ci garantì che l’artista era persona seria e soprattutto grazie al fatto che un professionista di tale levatura, non avrebbe potuto deluderci, accettammo di aiutarlo. L’uomo era in quel momento in seria difficoltà e parecchie persone si erano rifiutate di aiutarlo, non volendo correre rischi. Infatti il rischio c’era: in caso di legali inadempienze, di necessità sanitarie e quant’altro, per un periodo di due mesi avremmo risposto noi garanti, ma ci presentammo ugualmente in Questura per firmare. Il musicista si dimostrò molto riconoscente nei nostri riguardi. Sinceramente, rivedendo la cosa con l’esperienza attuale, forse fummo po’ incoscienti. Fortunatamente non ci furono problemi.

Di tanto in tanto lo invitavamo a casa nostra e lui si dimostrava parecchio interessato alla nostra amicizia. Un giorno invitammo anche dei nostri amici per presentarlo e si esibì per loro. Grande fu l’entusiasmo da parte di tutti i presenti. Ricordo che un giorno ci invitò ad un suo concerto e ci chiese un altro favore: quello di non mancare a quell’evento anche perché desiderava che uno di noi due lo riprendesse con la telecamera, in modo che poi gli restasse il video per ricordo e ci promise che avrebbe riservato per noi due posti in prima fila. Accettammo, anche perché eravamo in un certo senso onorati di essere amici di una persona così importante, anche se iniziavamo ad avere delle perplessità. Ci aveva promesso che quanto prima ci avrebbe invitati a cena a casa sua. Per inaugurare questa nuova amicizia, gli regalammo pure un quadro. Non smetteva mai di ringraziarci e sin qui, nulla di strano.

Quando però arrivò il giorno del suo concerto, qualcosa non andò nel verso giusto: arrivati al teatro, i posti in prima fila erano sì destinati a noi, ma dovemmo pagare il biglietto (e anche abbastanza salato). Io e Saro restammo sconcertati, perché davamo per scontato che, almeno saremmo entrati gratis. Tuttavia, dopo avere pagato, fatto le riprese durante l’esecuzione dei suoi brani e realizzato un bel video, fummo anche generosi da regalargli il dipinto. Per l’ennesima volta il musicista ci ringraziò, mimando di essere sempre riconoscente verso noi e che per lui l’amicizia era sacra. Però…ripeto… qualcosa non quadrava. Ci faceva dei discorsi piuttosto strani: ad esempio, che i suoi amici gli imbiancavano la casa gratis, che aveva chi gli faceva delle riparazioni, chi gli svolgeva delle commissioni perché non aveva tempo, ecc. In breve, “a suo dire” era considerato come una specie di idolo da venerare, ed a cui tutti ruotavano attorno, almeno, questo era quanto ci raccontava! Sicuramente ingigantiva di gran lunga. Metteva in evidenza il suo ego e l’esigenza di voler stare sempre al centro dell’attenzione, trattando gli altri da sudditi.

Era accecato dalla gloria e dal suo spudorato narcisismo. Ebbene, come se non bastasse, un giorno, l’ eccentrico musicista, ebbe il coraggio di chiederci dei soldi in prestito (una somma non da poco) e anche qui lo accontentammo. Ci aveva promesso che avrebbe restituito il tutto entro un anno e ci fidammo. Non ci invitò mai a casa sua. Apriva la bocca solo per farsi grande e nonostante ciò, di tanto in tanto continuavamo ad invitarlo a casa, ma diventavamo sempre più titubanti, poiché il suo atteggiamento non era più convincente coma da principio, infatti spiccava il suo amor proprio. La sua notorietà lo allontanava spesso dalla realtà, mentre sottolineava in continuazione di essere l’acclamato beniamino dei fans. Tutti, a sua detta, gli concedevano dei grandi favori, solo perché era famoso. Dal canto nostro eravamo sempre più dubbiosi. Sta di fatto che quando decidemmo un bel momento di chiedergli con gentilezza il denaro prestatogli, rimase stupito e s’ indignò. Cambiò del tutto atteggiamento, sembrava un’altra persona, era come se non ci avesse mai conosciuto. Si dimostrò offeso come se chiedendogli indietro i nostri soldi gli avessimo voluto mancare di rispetto. Come già detto, non si trattava di una cifra irrisoria, quindi non potevamo lasciar correre. Evidentemente la sua arroganza e il suo orgoglio smisurato erano stati messi a dura prova.

A quel punto si rivelò per quello che era. Ingenuamente lo avevamo idealizzato e avevamo proiettato su di lui i nostri buoni propositi, la nostra sincerità. Dopo un po’ di tempo, vedendo che non prendeva l’iniziativa di restituirci il dovuto, mi decisi a muovermi e gli telefonai. In modo garbato gli feci presente che avremmo voluto indietro quanto prestatogli. L’imbarazzo da parte di costui fu palpabile, io stressa finii quasi per sentirmi io in colpa, ancora millantandosi costui personaggio famoso…come se tutti gli fosse dovuto. Dopo ancora tempo, il superbo musicista, a malincuore, ci restituì il denaro, ma fu per lui come una sorta di affronto, perché credeva o forse pretendeva in cuor suo che si fosse trattato di un regalo. Regalo in virtù di che cosa? Dopo tutto quello che gli avevamo dato, aveva anche avuto il coraggio di tirare la corda, fin quando però ad un certo punto questa riuscì a spezzarsi.

Probabilmente ci aveva sottovalutato, scambiando la nostra bontà d’animo per stupidità. …e pensare che di soldi ne guadagnava abbastanza! Comunque sia, da quel momento ci voltò le spalle, perché capì che non c’era più nulla da scroccare, capì inoltre che noi non eravamo i polli da spennare, come evidentemente pensava. Evidentemente c’eravamo illusi di aver trovato un nuovo amico, mentre in verità era solo un marpione opportunista, pieno di fumo. Venimmo poi a conoscenza che il suo illimitato narcisismo gli impediva di relazionarsi con il prossimo. Era troppo concentrato su sé stesso e sulla sua arte e quindi perdeva facilmente il filo dalla logica comportale. Venimmo anche a conoscenza che alle spalle aveva tre matrimoni falliti.

GENEROSITÀ INCOMPRESA

Diversi anni fa io e mio marito, fummo pregati di realizzare un grande murales, molto complesso e impegnativo, presso la Sede di Un’Associazione Umanitaria, (preferisco non citarla) in una località dell’Interland Milanese. L’opera sarebbe stata dipinta a titolo di favore, ovvero a costo zero. Accettammo, anche perché considerato il contesto, per l’appunto “umanitario”, credemmo di fare un’opera di bene. Ben presto dovemmo renderci conto che il lavoro da fare era più difficoltoso del previsto: ogni Domenica, ci dovemmo recare in luogo, avanti a quella parete, per completare un’opera che sembrava non avere fine. Addirittura chiedemmo una mano a una nostra cara amica, pittrice molto brava, in modo tale da accelerare i tempi. Dopo circa tre mesi di faticoso peregrinare, finalmente l’opera fu terminata: Era spettacolare! I soci non smettevano di ringraziarci. Del resto… chi altri avrebbero fatto un regalo simile? Il professionista “anche più scadente” avrebbe chiesto per un murales del genere, non meno di 5000 euro.

Tutto che fu a buon fine risolto, pensammo di chiedere una lecita cortesia alla stessa Associazione, ovvero di pubblicare la foto del murales, col nostro nome, sul loro giornalino e questo con la semplice finalità pubblicitaria. Ma… impensabile sorpresa: Per assecondare la nostra richiesta, il responsabile dell’Associazione ebbe la sfacciataggine di chiederci la somma di circa 200 euro. Ovviamente e come era logico che fosse…non accettammo! Questa strana persona forse non era memore di aver ricevuto recentemente, da noi, l’enorme e pregiato murales. Per lui eravamo già diventati degli emeriti sconosciuti: “Passata la festa gabbato lu Santu”. Del fatto ne rimanemmo giocoforza sconcertati. Con un gesto simile, quello strano individuo non fece altro che: dimostrare di essere in possesso di una palese sconcertante venalità, superbia e ingratitudine. Nel caso specifico, la morale ultima si mostra senza veli e come dice un vecchio proverbio: “Da un bene fatto col cuore, mai aspettarsi qualcosa di buono in cambio!”. L’esperienza però insegna, capimmo infatti che fare certi favori è come dare le perle ai porci, soprattutto a gente che non meriterebbe nemmeno una caramella. Evidentemente, di fronte ai soldi, i caratteri di certe persone escono allo scoperto.

L’IINTERDIZIONE

L'AVVOCATO DEL DIAVOLO

Sto per raccontare una storia vera, scandalosa, cercando di descriverla il più fedelmente possibile. La mia finalità è di fare aprire gli occhi a tante persone sprovvedute su una realtà spesso sconosciuta, soprattutto a chi è all'oscuro e per mettere in guardia tutti coloro i quali potrebbero trovarsi invischiati, per ingenuità o cattiva informazione. Questo alto rischio potrebbe essere per chi ha in famiglia una persona invalida, ammalata o anziana e credendo di tutelarla, qualcuno potrebbe presentare un ricorso in tribunale, tramite un avvocato, per avviare una procedura in cui si chiede l'assegnazione di un amministratore di sostegno, credendo di tutelare la persona interessata e invece ci si ritrova in una trappola circondata da avvoltoi, che come sanguisughe, vivono alle spalle dei più deboli. In pratica chi fa questo passo falso, passa dalla padella alla brace, anche perché non si può più tornare indietro. Purtroppo all'atto pratico, questa legge viene stravolta e anziché la persona da proteggere ne trae beneficio, viene defraudata e penalizzata sotto ogni punto di vista.

Tra tantissimi casi è sufficiente riportarne uno specifico riguardante una mia cara amica (che chiamerò Simona). In questo caso l'errore commesso non è dovuto alla disinformazione di qualcuno, ma all'astuzia di una persona della stessa famiglia, essendo accecata dalla bramosia del denaro. L’artefice di questa storia ha usato una strategia per poter arrivare al suo scopo, compromettendo la vita dei suoi familiari. Una famiglia composta dalla madre di 95 anni e tre figlie. La mamma è ancora abbastanza lucida mentalmente e autonoma, anche se necessita di un aiuto per sbrigare pratiche e per le faccende domestiche. Milena è invalida per via di disturbi psichici, ma abbastanza tranquilla e autosufficiente nella sua autogestione, anche perché segue con regolarità le cure mediche. L'altra sorella, Simona, persona molto in gamba e corretta, si preoccupa della salute dei suoi familiari, soprattutto della sorella meno fortunata. La terza, Marina, sopra citata, molto avida e spietata, mette nei guai madre e sorelle, attraverso una procedura penale e mettendo in atto una diabolica strategia: ha dichiarato il falso, in quanto ha asserito che Simona trattava male la mamma e la sorella invalida e quindi, a suo avviso, entrambe avrebbero avuto la necessità di essere assistite da qualcuno.

Di conseguenza lei stessa si sarebbe prestata ad essere nominata Amministratore di sostegno, senza interpellare la madre e le sorelle, che certamente glielo avrebbero impedito. Il giudice, fidandosi ciecamente di lei e non avendo verificato i fatti, ha proceduto legalmente. Dal momento in cui Marina ha avuto la nomina come Amministratore di sostegno, aveva in pugno la situazione, in quanto era diventata la padrona dei loro risparmi, oltre a percepire un mensile al mese da parte di ciascuna, le si prospettava una vera e propria rendita. La legge infatti prevede che queste figure, facendo un servizio, debbano essere ricompensate, ma siccome l'indole umana è egoista, nella maggioranza dei casi, questi amministratori non si limitano a svolgere il loro lavoro onestamente, poiché perdono la testa, cercano di approfittare della situazione per poter arraffare più soldi possibili, speculando sulle spese da affrontare. Infatti il denaro che fanno risparmiare ai loro assistiti, in realtà sarà destinato alle proprie tasche. Questi sanno manipolare abbastanza bene i soldi e la legge, per cui dovendo dare conto al giudice ogni anno, mostrano tutte le spese a carico della persona assistita, riuscendo a far quadrare i conti, anche se in questo caso la sorella assatanata non è un avvocato, ma in qualità di sorella, ha potuto decidere per loro, dichiarando il falso. Se fosse stata in buona fede, avrebbe dovuto farlo senza alcuna ricompensa, quindi in modo informale, piuttosto che legalmente. Se lei inoltre avesse avviato la pratica senza proporsi come amministratore di sostegno, il giudice avrebbe incaricato una persona estranea, col titolo di avvocato, a meno che nella parentela non ci fosse stata un'altra persona disponibile. Fatta questa premessa, lascio immaginare lo svolgimento dei fatti.

Era nata una guerra in famiglia, poiché la figlia avida e spietata, riconosceva alla madre e alla sorella assistite il minimo indispensabile, come se non se lo potessero permettere, mentre lei, oltre alla sua paga mensile, sperperava il loro denaro, probabilmente per agevolare qualcuno, o per trarne profitto, infatti ha collocato due badanti (una per il giorno e una per la notte) spendendo (coi loro risparmi) ben 3.500.00 al mese. In pratica, è facile pensare che l'amministratore avesse la sua parcella sulla paga che queste percepivano. Nonostante l'esorbitante cifra spesa, la casa era lasciata sporca e le due povere donne venivano trascurate, anzi venivano addirittura sedate. Non a caso nella loro casa era sparito di tutto, biancheria, servizi, ecc. Il loro appartamento era stato svuotato dalle cose più belle. Arrivò il momento in cui Marina dovette gettare la spugna, perché la situazione era diventata insostenibile, del resto aveva intascato già un bel po' di soldi, migliaia di euro, ma non si pose fine alla drammatica situazione, perché secondo la legge, l'Amministratore di sostegno ormai dovrà esserci per sempre, per cui il giudice ha dovuto nominare al suo posto un' altra persona, a discapito della stessa famiglia per le spese legali. In teoria il giudice avrebbe nominato uno dei tanti avvocati candidati, ma poiché nella parentela c’era una cugina avvocato, lei si propose al giudice ed ebbe la meglio.

Già da un pezzo, questa donna, senza scrupoli, ambiva a raggiungere questo obiettivo, cercando di arruffianarsi zia e cugine con false moine, ma in passato loro non glielo avevano mai permesso e così decise di emarginare le quattro potenziali prede, dato che avevano fatto fallire il suo diabolico piano. Per questo motivo questa nipote non aveva più nulla da perdere. Adesso però nessuno glielo poteva impedire, perché Marina, inconsapevolmente, le aveva spianato la strada e così riuscì ad intrufolarsi come un serpente e fu nominata Amministratore di sostegno. Se prima la tiranna era la sorella Marina, adesso lo era diventata la cugina. Questa donna, ormai arrivata all'agognato traguardo, poteva avere potere decisionale, per cui tentò persino di eliminare il telefono fisso per farle risparmiare. Questa famiglia sta vivendo un vero inferno, mentre vede a vista d'occhio il conto in banca diminuire e tra l'altro è Simona che riesce a dare un reale supporto psicologico e soprattutto affetto a queste due donne, sempre più sole, e mortificate, prive di poter fare persino un regalo ai propri nipoti. Secondo la legge, il secondo passaggio sarà in futuro l'interdizione e sarà per loro il "colpo di grazia", un vero trauma, perché significherebbe che il tutore assegnato dal giudice si sostituirà in modo totale alle scelte e alla volontà delle due assistite e dell'altra sorella, che non avrà più voce in capitolo.

La cattiveria non ha proprio limiti e ciò che è sconvolgente è come la legge non tuteli i più deboli, avvantaggiando sempre i prepotenti, i disonesti e i più spietati. Bisogna guardarsi da tutti i lupi travestiti da agnelli e da avvoltoi e anche dalle persone di cui non penseresti male e invece tramano come dei serpenti. Raccomando inoltre di essere sempre informati sulla legge perché l'ignoranza non perdona. Si è persa l'umanità, soprattutto davanti ai soldi, la gente perde la testa, persino nella parentela e tra le persone più care si possono verificare simili esperienze traumatiche. Non a caso esiste il famoso detto: Parenti serpenti. Oltre al mi sdegno, esprimo con tutto il cuore la mia solidarietà a questa mia carissima amica e alla sua famiglia, che sta vivendo questa drammatica situazione, poiché sta pagando gli errori di qualcuno, spinto dalla bramosia del denaro. Si può uccidere non solo fisicamente, ma anche in senso morale e nella psiche.

IL SALUTO NEGATO

Due famiglie legate dalla parentela, cugini di primo grado, erano caratterizzate dallo stesso livello di superbia. Di conseguenza erano accomunate dagli stessi strani atteggiamenti. Trascorrevano le vacanze estive a Taormina. Erano liberi professionisti e ciascuna delle due famiglie possedeva una meravigliosa villetta e un motoscafo. Un giorno, entrambe le famiglie decisero di fare un bel giro in barca e ad un certo punto una delle due si avvicinò a quella dei propri cugini, superandoli. In pratica la famiglia che aveva avvistato i cugini, si aspettava da loro il saluto, e nello stesso tempo, questi a sua volta si aspettavano il saluto da questi, ma nessuno ebbe l’iniziativa di salutare. Così si guardarono tutti quanti, quasi come una sfida, senza un sorriso e senza un cenno di saluto. Questo saluto mancato non ci fu in quel contesto, tanto che alla fine una dei due motoscafi si allontanò fino a sparire in lontananza, perché nessuno dei cugini ebbe l’iniziativa di fare un semplice cenno di saluto. Ma come mai? Si chiederà il lettore.

Chiunque non riuscirebbe a darsi una giustificazione in merito ad un simile atteggiamento, anzi, probabilmente si sarebbe divertito a salutare per primo! Ma se per un attimo ci intercaliamo dal punto di vista del superbo, questo non ha salutato perché immaginava e pretendeva che lui doveva essere salutato per prima, come segno di rispetto, di riverenza, e allora sì che avrebbe risposto al saluto, tanto per affermare la sua presunta superiorità. Insomma, si tratta di una mentalità gretta e perversa, poiché si denota la mancanza di umiltà e soprattutto una mentalità molto misera e chiusa. Dopo un po' di tempo, una delle famiglie commentava e criticava i cugini che avevano incontrato in barca e che non si erano degnati neanche di salutare. Dicevano: “Maleducati! Maleducati!!! Ma come si permettono di non salutarci?! E che cosa abbiamo fatto per non meritarci il saluto?” A loro volta i cugini criticati commentavano tra di loro: “Non ci hanno nemmeno salutati! Vergogna!”

In pratica, entrambe le famiglie erano sullo stesso piano. Evidentemente è troppo facile riuscire a vedere i difetti altrui e non riuscire a vedere i propri.

LO SCRITTORE DI TAORMINA

Lo chiamavamo “Lo scrittore” di Taormina: un personaggio triste, solitario. Non viveva lì, ma in un paese vicino. Ogni anno in Agosto lo si incontrava nella solita piazza di Taormina. Era un uomo già abbastanza anziano, non si era mai sposato e andava perennemente ancora in cerca di avventure. Camminava con un libro in mano: era il suo ultimo capolavoro e probabilmente lo usava come esca per farsi apprezzare e soprattutto per darsi un certo tono. Si atteggiava ad intellettuale, si sedeva al bar, poggiava il libro sul tavolino ed iniziava a guardarsi intorno. A volte lo si vedeva in conversazione con qualcuno, i suoi discorsi erano monotoni e ripetitivi. Lo osservavo. Affermava che le donne sono tutte delle “poco di buono” (per non dire la parolaccia) e non a caso, secondo la sua versione, non si era mai sposato. A quanto pare però si vantava di avere avuto tantissime donne, pur se nello stesso tempo, le disprezzava. Mah! Un tipo davvero strano! Raccontava le stesse cose, spiegando che il contenuto dei suoi libri si basava sugli incontri amorosi, ma non curando l’aspetto sentimentale, bensì quello sessuale. In effetti bastò una frase che lesse davanti ad un gruppetto di persone a far capire che i suoi libri erano di pessimo gusto.

Notavo in lui una certa morbosità, disprezzava le donne, era misogino, ma contemporaneamente spifferava con orgoglio ai quattro venti le sue avventure con le donne attraverso i suoi squallidi libri. Un giorno ascoltai i suoi discorsi e riuscii a capire la sua vera indole. Diceva: “Ho scelto di non sposarmi perché le donne sono false, cattive e creano solo guai!” A volte è anche vero, “In parte… ma non è un dogma” infatti se ad un uomo capita una donna del genere, la vita di costui è rovinata. Poi diceva: “L’unica donna brava e buona è mia madre, soltanto lei! Le altre si possono buttare tutte a mare!” Disprezzava senza un minimo ritegno. L’ultima volta che si vide gironzolare per la piazza, lo scrittore era diventato curvo, camminava molto lentamente, era sofferente anche per la veneranda età (si avvicinava ai 90) con il solito libro in mano, ma adesso il suo sguardo ero perso nel vuoto. Andava sempre alla ricerca di conquiste femminili. Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Una sua frase mi colpì: “L’unica donna buona, brava e che amo è mia madre”. Sembrava strano ma lei era ancora viva! Aveva compiuto ben 106 anni. Sicuramente sarà nato quando lei aveva solo 16 anni. L’uomo disse: “Se mia madre muore, io morirò con lei. Spero che io muoia prima.”

IL RITRATTO CON LE CORNA

A Taormina, un ritrattista di strada (lo chiamerò Claudio) con problemi psichici, non tanto bravo nel cogliere l'espressione del volto, eseguì un ritratto dal vero ad un turista siciliano, ma non soddisfatto del lavoro, questo lo rifiutò, affermando che non era somigliante. Il ritrattista, persona piuttosto irascibile, si mise ad inveire contro di lui, mentre l'uomo si allontanava come se nulla fosse. L'artista di strada imprecava e diceva davanti ai presenti: "Come fa a dire che non gli assomiglia? È preciso! Balordo! Pezzente!" Cominciò a sfogare la sua rabbia deturpando quel ritratto rifiutato, disegnando sulla testa un paio di corna. La gente, incuriosita e con aria di perplessità, guardava tra lo stupore e il divertimento. Una donna gli si avvicinò e chiese: "Chi è questo?" "È il diavolo!" Rispose e scoppiò a ridere più per il nervosismo che per l’allegria, espose quindi l’abbruttito ritratto in vetrina. Dopo un po' il turista con cui aveva litigato, si trovò a passare e il suo sguardo si posò su quel ritratto che aveva rifiutato, perché non si aspettava di trovarlo con le corna!

A quel punto si avvicinò al ritrattista e gli disse: “Come ti permetti di esporre il mio ritratto con le corna?" Claudio replicò: "Ma cosa stai dicendo? Questo non è il tuo ritratto! Tu stesso me l'ha detto e lo hai pure rifiutato!” L'uomo non voleva sentire ragioni e così nacque un altro acceso litigio. Le persone vicine intanto si divertivano e ridevano, tanto da sembrare la scena di un film. Infine il turista scontento, dovette cedere e se ne andò indignato, mentre l'artista ripeteva ai più curiosi: "Questo è il diavolo! … è il diavolo! Chi vuole posare per un ritratto?"

LE SIGNORINE DEL MIELE

Parecchi anni fa ci avevano indicato un posto in cui poter comprare del miele genuino e nel contesto io e mio marito conoscemmo delle persone in un paese etneo. Erano dei personaggi che mi ispiravano a scrivere una storia e solo dopo tanti anni è arrivato il momento. Una tale esperienza resterà indelebile nella mia memoria. Quando entrammo in questa specie di magazzino che dava sulla strada e dall'altra parte sul giardino, dal quale si intravedevano degli alberi di limone, il nostro sguardo si posò sulla figura di un vecchietto che stava seduto, grembiule allacciato e indaffarato a versare il miele fresco, nei contenitori. L’uomo era simpatico, socievole, ancora molto in forma e arzillo, nonostante l’età avanzata. Faceva il calzolaio e svolgeva questo secondo lavoro che esercitava nel suo stesso laboratorio, avendo in un posto più distante le arnie con le api. Dopo il processo per produrre il miele, lo travasava in grossi barattoli e lo vendeva agli abituali clienti. Il miele aveva un profumo e un sapore fragrante e soprattutto era genuino, così come lo stile di vita che lui conduceva. Aveva due figlie, ormai di mezza età, entrambe nubili. Nel frattempo una delle due, calorosamente, ci offrì qualcosa da bere.

L’uomo mentre versava il miele si mise a parlare e ci raccontò un po’ della sua vita. Era rimasto vedovo e mi colpì il particolare di come trattava le figlie: le faceva trottare. Le due donne erano sempre rimaste in casa ad occuparsi delle faccende domestiche oltre ad aiutare il padre nel suo lavoro. Mi sbalordì il modo come le due gioviali e accoglienti donne si relazionarono con noi e con me in particolar modo, persone semplici, umili senza pretese, ma dall’aria rassegnata ad una vita che sicuramente non era stata per niente gratificante, in quanto avrebbero voluto avere un uomo accanto e una propria famiglia, ma il padre era talmente possessivo che non permetteva loro nemmeno di uscire di casa. Aveva persino impedito alle figlie di cercarsi un lavoro e di frequentare qualcuno fuori della cerchia familiare. Di conseguenza non potevano le donne aver conosciuto persone se non di cieca fiducia, figuriamoci poi qualche uomo! Il campo sentimentale o sessuale era per loro un tabù.

Quel giorno, mentre io e mio marito, sposini, eravamo seduti, aspettando che il padre versasse nei barattoli i chili di miele che avremmo acquistato, una delle figlie, si mise a parlare con me in maniera così cordiale e confidenziale che quasi mi commosse. Capii che era una persona molto sola e aveva bisogno sicuramente di parlare con qualcuno che l’ascoltasse. Così mi invitò a seguirla per mostrarmi la casa dove vivevano, oltre al grazioso giardino pieno di fiorifere piante. Maria mi guardava estasiata, mi colpì il modo in cui si relazionava con me, come se fossi una sua vecchia amica, forse perché le ispiravo fiducia, forse perché scopriva in me la capacità di ascoltare… non saprei esattamente. Tutto sommato anche lei mi incuriosiva mi era molto simpatica, infatti mi dette l’idea di una persona sincera, genuina, ma anche abbastanza sprovveduta, nonostante la sua matura età. Aveva 52 anni, ma considerando il tipo di vita che aveva condotto, sempre chiusa tra le mura domestiche e la parrocchia che frequentava, tutto ciò era anche normale. Da giovane sarà stata sicuramente una bella donna. I suoi occhi azzurri facevano trapelare una dolcezza e una nostalgia infinita. Mi pare che entrambe le sorelle avessero conseguito solo la licenza elementare.

Ad un certo punto, stranamente, mi chiese se volessi leggere una lettera d’amore che aveva ricevuto parecchi anni prima da un giovane, quindi all’epoca della sua giovinezza, ed era stato quello l’unico amore della sua vita, ma soltanto platonico. Un tale amore però non era mai sbocciato, per lo stesso e solito motivo: suo padre non le permetteva di frequentare quel ragazzo. Per una questione di delicatezza accettai di leggere quella lettera. La donna era entusiasta perché qualcuno l’ascoltava, immedesimandosi nelle sue emozioni, lasciando trapelare come i suoi sentimenti ancora fossero così vivi. Provai un senso di tenerezza e di desolazione per lei e per quella famiglia di altri tempi. Le due donne non avevano avuto la possibilità di vivere i loro anni ed erano trattate quasi come delle “Cenerentole”, soprattutto dopo la morte della loro madre. Non avevano mai potuto realizzare i loro sogni, purtroppo anche perché prive di determinazione, non riuscendo ad imporsi alla volontà del padre padrone, una persona, con tutto il rispetto, molto egoista. Mi colpì tantissimo il modo in cui gioiva per avermi conosciuta, poiché era stata affascinata dalla mia persona e dalla mia indole e si complimentava con me anche per avere sposato una persona come mio marito. Ripeteva: “Siete davvero una bella coppia! Si vede come vi amate! È stupendo!” Lo diceva con sincerità e spontaneità di una bambina, proprio perché era senza dubbio una persona di indole buona, riuscente a gioire della felicità altrui, nonostante avesse avuto condotto una vita difficile e quindi poco felice.

Poi Maria mi disse ancora: “Lo sai che io e mia sorella siamo costrette a nascondere i soldi a mio padre?” “Perché?” Risposi. “Perché lui dà soldi alle donne e non è giusto! Perché non li conserva per noi?” “Ahimè!” Pensai. “Che situazione! Mi dispiace!” Prima di andare via, Maria mi disse, presente la sorella che si era appena avvicinata per ascoltare la discussione: “Lo sai cosa succede la sera qui davanti casa nostra? Non te lo puoi nemmeno immaginare! Si appostano delle macchine con delle coppiette. Non sai quello che fanno! Non è giusto! È davvero scandaloso! Non si fanno queste cose! Ma i genitori non hanno insegnato loro l’educazione? Non lo sanno che è un peccato?” Notavo le loro espressioni davvero comiche, strane, scandalizzate. Pensavo: “Poverette, mi sembra la storia della volpe e dell’uva! La volpe non era capace di prendere l’uva, allora la disprezzava”. Poi pensavo ancora: “E loro perché le guardano?”

LA CASA AMBULANTE

Tantissimi anni fa, a Desenzano, conobbi un ragazzo barbone di 25 anni, molto raffinato, pulito, persona tra l’altro piuttosto istruita. Andava in giro con la sua bicicletta trasformata in vera casa ambulante, infatti era diventata una specie di ripostiglio, dove ogni oggetto e utensile era stato collocato al posto giusto, pronto per l’uso. Aveva il necessario per poter sopravvivere: tegami, posate, padelle, minuterie e attrezzi vari, lampadine tascabili, ecc. Indimenticabile una grossa pentola di alluminio che aveva due funzioni: per il bucato e per far bollire l’acqua per la pasta; logicamente non poteva mancare un fornellino per poter cucinare. Il ragazzo, quando camminava non era mai libero, ma condizionato dal continuo legame con la sua casa ambulante che doveva trasportare ovunque andasse. Era ormai diventata il suo fardello. Non poteva passare inosservato, perché durante il lento tragitto, il marchingegno in movimento faceva un rumore molto forte, per via degli oggetti metallici che si urtavano tra di loro, picchiettando, sino a produrre un suono simile a quello dei campanacci.

L’ inconsueto e simpatico barbone richiamava alla mente un personaggio uscito dalle favole. Provai ad immaginare come dovesse essere faticoso e difficoltoso vivere in tal modo, soprattutto senza uno stabile riparo. Chissà…quel giovane quanto tempo sarà in grado di resistere in quel modo?

LA SVANITA COL PASSEGGINO Mi trovavo in vacanza in un centro turistico del Lago di Garda. Un giorno incontrai una donna molto dimessa e un po’ trasandata che trascinava un passeggino apparentemente vuoto, ma dentro il quale c’era un piccolo bambolotto. Avevo visto persino i cani dentro i passeggini, ma vi assicuro che non avevo mai visto prima di allora bambolotti senza un bambino accanto, essere portati a spasso. Si fermò davanti a me, mi sorrise, io ricambiai e mi venne spontaneo posare lo sguardo nel passeggino. Probabilmente si accorse della mia curiosità e dopo aver preso il bambolotto in braccio, si mise a parlare con molta disinvoltura: “E’ mio figlio, siccome è claudicante, lo porto nel passeggino per non farlo stancare troppo”. Nel frattempo lo accarezzava. Non si trattava di un bambolotto dalle sembianze di un neonato, ma di quelle di un ragazzo. Capii subito che la donna non era a posto con la testa e mi immedesimai., cercando di calarmi nello strano personaggio.

Pur se in apparenza la situazione era molto ridicola, in realtà tutto ciò era drammatico. Le dissi: “Complimenti! È davvero un bel ragazzo. E poi sa cosa penso? Ha avuto un’ottima idea, chi se ne importa del giudizio della gente? Pensi che ho visto alcune persone che portano a spasso il proprio cane nel passeggino e perché lei non dovrebbe portare suo figlio che è un essere umano?” La donna continuò a parlare e a raccontarmi alcuni episodi che riguardavano quel bambolotto che rappresentava “suo figlio”, anche perché aveva notato la mia disponibilità ad ascoltarla con interesse. Fingevo di credere che fosse sana mentalmente, quindi che i suoi discorsi fossero del tutto normali e nello stesso tempo provavo commiserazione nei suoi confronti. Molto probabilmente viveva da sola, non c’era nessuno che si occupasse di lei e quindi della sua necessaria cura psichiatrica. Dai sui strani discorsi capivo che era una persona colta e intelligente. Infine la signora mi salutò con molta cordialità. Mostrava una certa gratificazione perché probabilmente non era abituata ad essere ascoltata e assecondata. Probabilmente le avevo dato quell’importanza che solo pochi riescono a dare. Purtroppo, quando la mente si ammala, fa brutti scherzi e un essere umano ne viene devastato e quella persona si era costruita un mondo tutto suo, aveva ovviamente la percezione della realtà del tutto alterata. Mi auguro almeno che la signora non soffra più di tanto, così come tutti coloro che patiscono di gravi disturbi psichici o fisici.

IL MEDICO E LA PAZIENTE

Tanti anni fa, a Palermo, mi trovavo in sala di attesa prima di essere ricevuta dal medico di famiglia. Siccome non c’era nessuno, ascoltai il dialogo avvenuto tra il medico e una paziente. La signora raccontava tutti i suoi acciacchi e chiedeva al dottore se potesse prescriverle qualche farmaco specifico per il suo nuovo disturbo. Il medico rispose: “No, signora, non è possibile! Non posso darle altri farmaci! Lei insistette: “Come dottore? Non ce la faccio più! Ho bisogno di un altro farmaco!” “Signora, non lo capisce che lei prende già dodici farmaci al giorno? Come posso prescrivergliene altri? Tra l’altro le farebbero male pure per il suo sistema nervoso!” “No, dottore, stia tranquillo, io non soffro di esaurimento nervoso e nemmeno sono nervosa!” Il medico, molto paziente, la rassicurò salutandola.

LA MONETA SULL’ALBERO

Un collaboratore scolastico di una scuola, persona molto semplice, aveva l'abitudine di raccogliere tutti gli spiccioli che trovava per terra, persino di un centesimo, ma ciò che colpiva particolarmente era il suo entusiasmo, come se tutte le volte, avesse trovato un tesoro. Mio marito, essendo un osservatore acuto e lavorando nella stessa scuola, si era accorto della gioia che manifestava quest’uomo ogni qualvolta trovava una moneta. Così, avendo scoperto il suo “punto debole”, si divertiva a seminare delle monete in giro per la scuola. Di tanto in tanto infatti gettava per terra una monetina, vicino a lui, con la speranza che la raccogliesse. Il bidello si accorgeva sempre delle monete, senza perderne una! Un giorno mio marito decise di attaccare con una colla resistente una moneta di 50 centesimi su un pezzetto di legno, gettato per terra in un'aula dove si trovava il collaboratore scolastico e dopo un po’, questo si accorse della moneta. Esclamò: “Guarda! Ho trovato 50 centesimi! Non ci posso credere!” Si piegò per prendere il soldino, ma non riusciva a prenderlo e intanto mio marito rideva sotto i baffi. Infine, la persona a caccia di monete, si accorse che il soldo era incollato, per cui fece di tutto per separarlo e dopo tanta fatica, riuscì a staccarlo, mentre con avidità, se lo mise in tasca.

Un altro giorno, mio marito decise di incollare un euro ad un laccio molto sottile e lo appese ad un ramo di un albero del giardino della scuola. L’albero era bagnato, perché aveva piovuto da poco tempo. Così, da vicino, si vedeva la moneta pendere dall'alto. Mio marito si rivolse al collaboratore scolastico: “Guarda cosa ho trovato! Una moneta che pende dall'albero! Come è possibile?” Questo, con l’innocenza di un bambino, era felice, euforico, perché già sia era impossessato della moneta col solo pensiero. Dopo tanti tentativi, poiché non ci arrivava, causa la bassa statura, riuscì a farla cadere, ma dovette scrollare i rami e si bagnò tutto. Tuttavia, la sua gioia era indescrivibile perché aveva raggiunto il suo obiettivo.

LA SARACINESCA

Ero a Palermo, in via Cataldo Parisio dove vivevo. Avevo 10 anni e mi trovavo in macchina con mia zia Silvana, una bella ragazza di 23 anni. Essendo universitaria, abitando ad Agrigento, in quel periodo viveva a casa nostra. Lei posteggiò la macchina e mi disse: “Olga, aspettami qui, perché tra pochi minuti torno. Vado a comprare una cosa”. Da premettere che all’epoca, quella via era piena di negozi assortiti, tutti consecutivi e comodi da visitare. Scese dall’automobile e notai attraverso lo specchietto che stesse per entrare nel panificio. Ad un certo punto, dopo pochi minuti, vidi la saracinesca chiudersi tutta d’un colpo. Dando per scontato che mia zia fosse rimasta lì dentro, rimasi molto perplessa. Provai un terrore indescrivibile, mancava poco e avrei avuto un attacco di panico. Sudavo, avevo la palpitazione. Ero pronta a scendere dalla macchina per chiedere aiuto, poiché secondo me Silvana era stata chiusa in quel negozio. Già immaginavo che il negoziante la volesse violentare.

Fortunatamente, pochi attimi dopo, che sembrarono un’eternità, vidi uscire mia zia tranquillamente da un altro negozio, per cui avevo fatto una gran confusione, mi ero sbagliata. Lei in realtà era entrata in un altro posto o probabilmente prima era forse entrata nel panificio che avevo adocchiato, ma sarà uscita un attimo dopo, evidentemente senza che me accorgessi. Ebbi un momento di immenso sollievo, ma confesso che tremavo ancora dalla paura. Mi sembrava di essere uscita da un incubo. Preferì non raccontare nulla a mia zia e a nessun altro. Passarono tanti anni, ero già adulta, quando mi successe qualcosa di molto particolare: mi riaffiorò quella paura di restare chiusa in una bottega, ingannata da qualche negoziante malintenzionato. Mi trovavo in una rivendita alimentare a Taormina, era l’ultimo orario e ricordo che mi trovavo alla cassa per pagare, quando vidi l’altro gestore (o impiegato) abbassare a metà la saracinesca. Io incominciai a sudare freddo, come se avessi immaginato che lui fosse intenzionato a chiuderla fino in fondo, per poi farmi del male. Ero quasi pronta per uscire di fretta da quel negozio, ma mi trattenni, perché la razionalità mi suggeriva che dovevo stare tranquilla, dato che tra pochi minuti avrebbero chiuso il negozio, ma ovviamente solo dopo che fossi uscita. Perché tanto terrore infondato?

Solo dopo parecchi anni, fui consapevole della causa scatenante che aveva provocato una tale paura inconscia. Esiste infatti una spiegazione. Adesso racconterò un’esperienza vissuta all’età di sei anni in Sardegna, esperienza che mi segnò per tutta la vita. Nel 1971 mia madre vinse un concorso per direttrice didattica (Preside) e fu trasferita a Laconi, un piccolissimo paese in provincia di Nuoro, situato al centro della Sardegna. Io e mia sorella trascorremmo pertanto un paio di anni in quel meraviglioso paesino. Sembrava un presepe. Io a quell’epoca avevo sei anni e mia sorella otto. Ho dei ricordi stupendi, soprattutto per la tranquillità che si respirava in quel piccolo centro abitato. Vissi con una semplicità tale da percepire emozioni paragonabili a quelle vissute dal personaggio “Aidi”. Era raro vedere passare qualche automobile sulla strada principale. Io, mia sorella e mia madre eravamo abituate a camminare sempre a piedi e per raggiungere la scuola elementare, abbastanza distante da casa nostra, andavamo persino da sole. Durante il giorno ci incontravamo con delle amichette, spesso figlie di negozianti, giocavamo nei cortili delle nostre case e camminavamo per le piccole vie del paese.

Si viveva a misura d’uomo e sembrava tutto ovattato per il silenzio che vi regnava, abitato per lo più da anziani e da bambini. Nonostante i piacevoli ricordi tanto indelebili, ho un ricordo molto nitido, non bello, ma che fortunatamente ebbe una svolta positiva. In paese non passava inosservato un certo uomo anziano, sembrava un personaggio da favola, ma piuttosto misterioso. Era molto semplice, dimesso, mi pare facesse il falegname: di bassa statura, guance e naso rossi, allegro e sempre molto simpatico con i bambini, soprattutto con le femminucce. Portava un paio di occhiali molto spessi. Assomigliava a Mastro Ciliegia, lo chiamavano “Zio Gulisu”. Spesso regalava caramelle ai bambini. Aveva una bottega molto rustica, senza pavimentazione, né finestre, molto buia, forse era munita di un piccolo lucernaio in alto, l’unica fonte di luce entrava dalla saracinesca che teneva sempre spalancata e che dava sulla stradina. La bottega era situata non distante da casa nostra.

Un giorno capitò una cosa alquanto strana. Mi vide giocare con alcune amiche e con mia sorella di fronte alla sua bottega e mi chiamò: “Olga, vieni, entra che ti do una caramella”. Io ingenuamente, vi entrai, dopo pochi minuti, chiuse la saracinesca e rimasi chiusa dentro con lui. Sinceramente rimasi stupita perché non mi aspettavo questo suo gesto inconsulto, ma non ebbi paura, nonostante non riuscissi a capire quale potesse essere la motivazione di chiudermi in quel locale. Grazie al Cielo e grazie a mia sorella, che aveva visto la scena e che spaventandosi era corsa a gridando, gridando: “Mamma!!! Olga è rimasta chiusa da zio Gulisu!” Subito mia madre si precipitò insieme a mia sorella, seguita dalle altre bambine. Si misero a picchiare contro la saracinesca completamente abbassata: “Apra apra! Zio Gulisu! C’è mia figlia! Olga! Esci!” Io mi sentivo spaesata e non sapevo cosa stesse succedendo. Grazie al candore della mia fanciullezza, non ebbi nemmeno paura, anche perché quel bizzarro uomo non mi toccò, probabilmente perché non ebbe la possibilità di farmi del male o semplicemente perché era stato scoperto. Cosa gli era passato per la mente? Sta di fatto che zio Gulisu, senza esitare, aprì la saracinesca ed io uscii subito da quella tetra bottega.

Non ricordo nemmeno cosa gli disse mia madre. Nonostante l’imbarazzo che avrebbe dovuto mostrare, lui rimase tranquillo, impassibile, come se nulla fosse accaduto e nemmeno si giustificò. In seguito venimmo a conoscenza che aveva il vizio di bere vino. Magari non mi avrebbe fatto nulla di male! Chissà…. Da quel momento però mia madre ci raccomandò di non avvicinarci mai più a zio Guliso e a nessun’ altra persona sconosciuta! Quell’ uomo era squilibrato psichicamente o era un pedofilo? Tutto sommato era sempre molto gentile, scherzoso con me e con tutti. Non avrei mai pensato male di lui. Con gli occhi di adesso però mi è anche lecito dubitare. Dopo quell’ inconsueta ed unica esperienza, mi è rimasta come una sorta di paura inconscia. Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio.

PASSEGGIATA CON GLI ZII

Non potrò dimenticare un’esperienza vissuta all’età di cinque anni. Mi trovavo in casa di villeggiatura di una mia zia a Capreria. Era una sera d’Estate e ricordo come se fosse ieri. L’altra zia, la più giovane, mi propose dopo cena di fare una passeggiata in macchina insieme a lei, al suo fidanzato, suo futuro sposo e a mia cugina. Accettai molto volentieri. Arrivammo fino a Marina di Palma, poi facemmo sosta al Castello e scendemmo dalla macchina. In quel momento notai un po’ di imbarazzo da parte dei miei zii perché supponevo che avrebbero avuto voglia di avvicinarsi e baciarsi, ma non lo fecero, probabilmente perché erano in compagnia di noi due nipotine. In quei momenti percepii quasi le loro emozioni e mi sentii anche un po’ a disagio. Dopo aver preso un gelato al bar, tornammo a casa e forse perché mi ero talmente immedesimata in loro e un po’ per la mia spiccata immaginazione, molto ingenuamente, feci spazio alla mia fantasia e raccontai agli altri zii e ai miei nonni che la zia e il suo fidanzato si erano baciati. Pensavo di rendermi simpatica, ma non pensai minimamente che potessi ferire la loro sensibilità.

Non l’avessi mai detto! I miei zii, imbarazzati e un po’ risentiti, negavano: “Non è vero! Olga, che stai dicendo!?” Ed io ripetevo: “Si sono baciati! Si sono baciati! Ricordo che persino dopo tanti anni i miei zii mi rinfacciavano quell’episodio, facendomi sentire in colpa perché avevo inventato una bugia. Ricordo un particolare, quando diventai adulta, mio zio un giorno mi disse: “Ti ricordi quando a Capreria avevi raccontato a tutti in famiglia che io e tua zia c’eravamo baciati? Ma non puoi immaginare come io mi sia dovuto trattenere quella sera a non baciarla, perché c’eravate voi due cugine! Tu invece, arrivati a casa, ci facesti fare pure una brutta figura! Da quel giorno dissi a tua zia che non ti avrei più portata in giro con noi!” Le risate furono inevitabili. In effetti con gli occhi di dopo, mi resi conto che non avrei dovuto farlo, però posso affermare che da parte mia non c’era stata mala fede, ma semplicemente quel candore che tutti i bambini possono avere. In effetti quale malizia ci può essere tra due innamorati che si vogliono bene? In fondo ero contenta per loro che si dovevano sposare e tutto sommato non mi sarebbe dispiaciuto se si fossero baciati in quel momento, anzi sarebbe stato normale. Bisogna considerare comunque che i tempi erano diversi. Stiamo parlando infatti degli anni ’60 e in Sicilia era tabù che due fidanzati potessero uscire da soli e figuriamoci se poi ci scappava pure il bacio davanti ai nipotini!

INCOMUNICABILITÀ AL TELEFONO

Non dimenticherò una telefonata, davvero comica, per non dire snervante. Faccio innanzitutto una piccola prefazione: Conobbi tantissimi anni fa in Sicilia una ragazza di Catania che chiamerò Letizia. Eravamo entrambe ventenni. Ebbene, restò tra noi un legame affettivo per un lungo periodo, anche dopo il mio trasferimento a Milano. Lei purtroppo non ebbe tanta fortuna, perché non trovò un lavoro, né tanto meno un uomo con cui condividere la propria vita. Devo ammettere comunque che aveva un carattere molto difficile. Ogni volta che mi chiamava, si lamentava dei suoi problemi e si piangeva addosso. Diceva di sentirsi sola e di non avere amici. Ultimamente Letizia era proprio peggiorata, perché mentre prima riusciva un pochino ad ascoltare gli altri, adesso parlava solo lei, ma non si limitava a parlare come una macchinetta, per rimuginare i soliti discorsi, ma addirittura quando stavo per dirle qualcosa, subito m’ interrompeva e finiva lei il discorso, improvvisando una scena, come se avesse già capito il seguito. Roba da pazzi!

Ecco cosa si verificò ultimamente durante una telefonata: Dopo che Letizia era arrivata ad una sua conclusione, perché non aveva nemmeno finito di ascoltami, tentai di interromperla per poter continuare il discorso incompleto e quindi poter dirle che lei era fuori strada e che avrebbe dovuto farmi parlare. Ma questa, imperterrita, continuò a parlare, come se io non ci fossi, come se parlasse con sé stessa. Infine mi disse: “È così? Dico bene?” Ed io rispondevo di no e dovevo ricominciare daccapo. Lei per un attimo mi ascoltava e poi, sul più bello, mi interrompeva di nuovo, arrivando alla sua conclusione e diceva: “Ah, sì ho capito! Poi è successo questo e quell’altro, ecc. ecc”. Quasi come se fosse onnisciente da sapere il risvolto dell’accaduto. Io già sudavo, perché mi ero stancata di non poter riuscire a portare un discorso così banale, che per concluderlo, occorrevano solo tre minuti, ma non me lo permetteva!!! La sua lingua era irrefrenabile come un fiume in piena e quindi mi interrompeva ancora, per arrivare alle sue fantomatiche conclusioni ad ogni frase che pronunciavo. Alla quarta volta, persi la pazienza e alzai decisamente il tono della voce: “Ascoltaaaa!!!!” Perché non mi fai finire? Così dopo finalmente riuscirai a capire ciò che è successo!”

Letizia non si rendeva nemmeno conto del suo atteggiamento assurdo e fuori luogo. Quando alla fine, con fatica, riuscii a completare il discorso, mi dissi: “Mamma mia, che stress comunicare con lei! “ Ho tantissima pazienza, ma Letizia è riuscita veramente a farmela perdere! Ha superato davvero ogni limite! Mi rendevo conto che questa persona purtroppo era peggiorata, diventando sclerotica e ancora non è nemmeno anziana. Alla fine mi disse: “Olga, è stato bello parlare con te. Sei l’unica persona che mi è rimasta, perché non ho più nessuno. Mi trovo benissimo con te, sin da quando eravamo ragazze. Peccato che siamo lontane! Tu sai ascoltare gli altri e sei sempre molto affettuosa”. Ovviamente la ringraziai e mi fece anche piacere, non lo nascondo. Dopo aver abbassato la cornetta, però, pensai che la prossima volta, quando Letizia mi telefonerà, resterò tutto il tempo ad ascoltarla e basta. Se poi lei, infine, mi chiederà: “Cosa mi racconti?” Le risponderò: “Niente di particolare, tutto vecchio”. Così almeno non mi stresserò inutilmente e forse lei si sentirà più appagata. Non dimenticherò questa telefonata che mi ha fatto davvero sudare e innervosire un po’, con tutto il rispetto per questa persona a cui voglio bene. A parte tutto, posso affermare che probabilmente non sono molto ricorrenti i tipi come Letizia, ma non sono nemmeno poche le persone incapaci di ascoltare gli altri, perché sono molto incentrate su sé stesse. Ne ho conosciute parecchie. Ve lo assicuro.

CONVERSAZIONE TRA AMICHE

A volte si creano delle situazioni comiche, perché basta il modo di parlare colorito di qualcuno o dei piccoli fraintendimenti per verificarsi delle situazioni anche grottesche. Si potrebbero prestare per alcune scenette teatrali. Un giorno, mentre passeggiavo con una mia amica, incontrai una vecchia conoscente in comune. Ebbene, siccome lei questa è per sua natura una gran chiacchierona, si mise a parlare con noi, strada facendo. Ad un certo punto, si mise a raccontare delle sue vacanze estive trascorse in montagna e inoltre di avere instaurato un rapporto di amicizia con una donna montanara. Il suo argomento sfociò nel giudizio che lei si era fatta nei confronti delle persone di montagna. Cercherò di riportare alcuni suoi discorsi: “I montanari sono tutti particolari! Lavorano tantissimo e si vede subito che è gente rozza e grezza! Non si curano dell'abbigliamento, sono troppo accomodanti, è gente proprio rudimentale. Ad esempio, non sono abituate a sedersi al bar per prendersi un cappuccino e mangiano persino il formaggio in piedi.”

Nel frattempo io e la mia amica ridevamo a crepapelle. Lei non riuscì a contenersi e le disse: “Anch'io, se mi capita, mangio il formaggio in piedi!” Ridevamo tutte e tre. Poi la simpatica donna continuò: “Quando loro devono fare un regalo, portano sempre attrezzi da lavoro, trapano, utensili agricoli … conoscono soltanto questo tipo di doni! Non hanno altre idee!” Dopo un po’ continuò: “Sapete? I montanari sono ricchi! Hanno tutti una seconda casa e poi generalmente il capofamiglia lavora in Svizzera. Lavorano tutti in Svizzera. Davvero, sono ricchi! Pensate che sono sempre in nero!” A quel punto mi venne spontaneo intervenire e con stupore le dissi: “Non ci posso credere! Che tristezza! E perché vestono sempre di nero? Comunque non mi risulta! Tutte le persone montanare che io ho conosciuto, di solito indossano abiti con colori abbastanza vivaci! Sei sicura che indossano abiti neri?” Lei rispose: “No…! Ma cosa hai capito? Volevo dire che lavorano in nero!” Tutte e tre scoppiammo a ridere a crepapelle.

SCHERZO DA RITRATTISTA

Avevo 20 anni e mi trovavo nella piazza di Taormina per lavoro, poiché da poco tempo avevo intrapreso un'attività artistica: nel periodo estivo realizzavo i ritratti dal vero ai turisti. Essendo ancora principiante, in quel periodo eseguivo ritratti in bianco e nero e solo dopo due anni, iniziai ad avventurarmi nella tecnica coloristica. Per far sì che potessi lavorare tanto, miravo sulla quantità, proponendo tre opzioni: il ritratto frontale o di tre quarti, il ritratto di profilo, eseguito in soli 10 minuti (senza chiaroscuro) e la caricatura. Ricordo ancora i prezzi in lire: il primo costava 30.000 lire, e il secondo e il terzo, 15.000 lire. Si fermò un ragazzo in compagnia di amici. Già dagli atteggiamenti avevo intuito che avevano voglia di scherzare pesantemente, quindi mi ero imbattuta in persone maleducate. Mi chiese: “Quanto costa un ritratto?” Gli spiegai che il prezzo variava in base al lavoro richiesto. Come se nulla fosse, in modo sfacciato, rispose: “Costa troppo, ho soltanto mille lire da spendere!” Anche se mi volli trattenere, il mio istinto fu di rispondergli: “Vatti a comprare un bel gelato!” Ma ebbi un’idea ancora più geniale, nonostante avessi capito che avesse voglia di scherzare, dato che insisteva, pregandomi di fargli il ritratto di profilo per quella misera cifra, stetti al suo gioco. Ebbi la prontezza di rispondergli: “Ok, mi hai convinto, cercherò di farlo più velocemente possibile!” Rispose: “Certo, anche in un minuto se è il caso!” A quel punto si avvicinarono tante persone, ero circondata da un numeroso gruppo di turisti italiani e cercai di “isolarmi” come se dovessi concentrarmi per realizzare una vera e propria opera d’arte. Feci un respiro profondo, lo sguardo concentrato sul giovane che era già in posa, tutto serio e quasi emozionato perché era al centro dell’attenzione. Dopo circa trenta secondi di immobilità, tracciai una linea. Mi fermai e gli dissi con tutta serietà: “Perfetto, ho finito”. Glielo mostrai. Ci furono attimi di esitazione. Stavano tutti zitti, erano increduli. Il ragazzo, spiazzato, disse: “Cosa hai fatto? Una linea? Il foglio è vuoto!” Con tutta calma replicai: “E tu pensavi che con mille lire ti facessi un ritratto? Questo è un capello e vale mille lire. Si vede che è tuo! Devi accontentarti, se vuoi che io mi accontenti di mille lire!” Tutti scoppiarono a ridere, capendo che si trattava di uno scherzo e il giovane non sapeva se ridere o arrabbiarsi. Una cosa era certa: era molto imbarazzato, ma poi non si trattenne e scoppiò a ridere. Si allontanò insieme ai suoi amici, mentre continuavano a ridere all’impazzata. Anch’io ridevo a crepapelle e non riuscivo più a fermarmi. In fondo mi ero presa una piccola rivalsa e soprattutto ero riuscita a trasformare una situazione antipatica in una divertente. SCHERZO AI RAGAZZINI Vivevo un periodo di spensieratezza. Ero sposina e ancora molto giovane, senza figli e meno impegnata di adesso. Per questo decisi di dedicarmi al volontariato nel paese in cui tuttora vivo. Negli anni ’90 esisteva l’Associazione “Condor”, frequentata dai ragazzini della scuola media provenienti da situazioni familiari difficili, e poco seguiti dai genitori. Erano costoro sostenuti da volontari che si alternavano. Il mio compito non si limitava a sostenerli nello svolgimento dei compiti, ma soprattutto era propenso all’animazione. Li seguivo nelle attività artistiche e li facevo recitare. Per loro i momenti più divertenti erano quando mi esibivo in alcune improvvisazioni o scenette teatrali. Ci divertivamo tanto. Un giorno successe qualcosa di imprevedibile. Mi presentai con un look completamento diverso: avevo tagliato i capelli molto corti e quando mi videro mi dissero: “Olga, sembri un’altra persona! Non sembri nemmeno tu!”

Ebbi la prontezza di cogliere la palla al balzo, improvvisando uno scherzo, ma uno scherzo serio! Stavo sfruttando la mia capacità recitativa. Risposi: “Infatti non sono io! Sono Elga! La sorella di Olga!” Mi venne in mente, tornando indietro nel tempo, quando un giorno mi presentarono una ragazza di nome Elga. Sembrava un gioco di parole: (Piacere, Elga. Piacere, Olga). I ragazzi del Condor: “Davvero! Non è possibile!” “Sono qui per sostituire mia sorella che sta male, ma ero anche curiosa di conoscervi, perché Olga mi parla sempre di voi” Mi osservavano quasi ammutoliti e dopo un po’ qualcuno disse: “Impressionante, siete due gocce d’acqua! Identiche!” Risposi: “É vero, però abbiamo caratteri completamente diversi.” Tanto per essere più credibile quel pomeriggio cercai di avere un atteggiamento più contenuto rispetto a quello normale. Ero più distaccata, meno esuberante. Persino quando mi chiesero aiuto nel disegno, risposi che non ero brava come mia sorella.

Si limitarono a fare i compiti e quel giorno non li feci nemmeno recitare, per cercare di essere coerente. Infine mi dissero: “Salutaci Olga! Quando torna?” Ritornai al Condor dopo qualche giorno e volevo vedere se i ragazzi avessero capito che si era trattato di uno scherzo. All’inizio non dissi nulla, ma quando mi chiamarono Elga, li corressi: “No, ragazzi, io sono Olga!” Erano più confusi che persuasi. Continuai: “Ieri sono stata dal parrucchiere e ho tagliato i capelli come quelli di Elga” Erano proprio confusi ed io mi divertivo da matti. Dissi: “Ragazzi, ditemi la verità, chi vi è più simpatica io o mia sorella?” “Tu, Olga!” “Perché?” “Perché sei la nostra animatrice. Ci fai divertire di più! Scherzi con noi. Invece Elga non scherza mai, è completamente diversa, anche se è simpatica. Ma non dirglielo, perché si potrebbe offendere!” Da quel giorno continuai ad essere me stessa: Olga.

Purtroppo i ragazzi del Condor non conobbero mai la verità, che Elga non esisteva. Avrei voluto svelare lo scherzo, ma non ci fu più l’opportunità, perché in seguito, a malincuore, dovetti lasciare il Condor a causa della condotta di tre ragazzini che subentrarono. Questi infatti erano maleducati, distruttivi e impedivano a noi educatori di lavorare. Tuttavia conservo un bellissimo ricordo che riguarda questo periodo della mia vita. In seguito il volontariato lo dirottai verso un’altra direzione: la Casa Famiglia, in cui da visitatrice, ero poi diventata l’animatrice per gli anziani. Ebbi anche in quel periodo tante gratificazioni, non mi divertivo come prima sicuramente, ma se non altro non incontrai problemi di questo genere, di contenimento, semmai alcuni anziani aveva problemi di incontinenza.

I FILI INVISIBILI

Ricordo un periodo della mia vita, quando i miei figli erano bambini, pensai di fare uno scherzo a Francesco, all’età di cinque anni, perché era troppo vivace e mi faceva stressare durante le vacanze quando ci trovavamo nella casa di villeggiatura dei miei. Dato che la casa era molto grande, piena di scale e scalette, lui correva e saltava senza fermarsi ed io ero in continua apprensione. Così una sera improvvisai uno scherzo, cercando di suggestionarlo. Mimavo di tenerlo imprigionato, ma con molta dolcezza, con dei fili invisibili che lo potessero contenere. Fingevo di attirarlo, manovrando i fili invisibili, tenendolo sotto controllo. Non potrò dimenticare come si facesse manovrare da me. Gli dicevo: “Bravo Francesco! Hai visto che riesci a farti guidare dai fili? Funzionano! Ma tu li vedi?” “No, non li vedo!” “Però funzionano! Quindi vuol dire che ci sono!” Francesco mi assecondava, stava al gioco, come se fosse davvero collegato ai presunti fili invisibili e così finalmente riuscivo a contenerlo. Questo gioco però funzionò soltanto per una sera.

Alcuni anni dopo, lui aveva circa sette anni e Sebastian dieci, attraversavo un altro periodo veramente stressante, a causa dei loro litigi continui. Quando restavo a casa con loro, mentre mio marito andava a lavorare a Taormina nel periodo estivo, avendo i bambini soggezione del padre, dovetti inventare una strategia affinché si moderassero nel loro comportamento spesso sfrenato e inventai una bella storia, che funzionò per un po’ di tempo. Io e mio marito avremmo speso un sacco di soldi per una telecamera speciale, in quanto potente e che tenevamo nascosta, con la possibilità di riprenderli in ogni momento della giornata, in tal modo mio marito, attraverso uno schermo in miniatura avrebbe potuto osservarli, in modo che non si potessero permettersi di commettere marachelle come erano abituati a fare. Ebbene, tutte le volte che i bambini erano in procinto di litigare, facevo loro ricordare della telecamera nascosta.

Direi che funzionò per almeno un anno e così mi stressai molto meno e li costrinsi ad essere obbedienti. Quando gli raccontai che la telecamera nascosta era solo una bella invenzione, prima si meravigliarono, ma poi scoppiarono in una irrefrenabile risata. In certi casi, è molto utile raccontare bugie. Dopo tanti anni, Francesco mi confidò che a proposito dello scherzo dei fili invisibili, sin quando era piccolino, sapeva che i fili non esistevano, ma per accontentarmi, mi faceva credere che lui ci credesse e quindi si faceva trasportare.

LE PIACCIONO I COLORI

Diversi anni fa, durante il periodo in cui lavoravo come insegnante di sostegno, mi trovai eccezionalmente a sostituire un mio collega, per cui mi fu affidata una ragazzina autistica (che chiamerò Sabrina) di seconda media. Era molto carina e apparentemente abbastanza tranquilla. La preside mi raccomandò di tenerla impegnata con le tempere, dato che amava dipingere e mi affidò il compito dicendomi: “Siccome lei è docente di Arte, questa è l’occasione buona per seguire l’alunna nella realizzazione di un grande cartellone. Alla bambina piacciono i colori. Come lei sa, professoressa, voi docenti dovreste assecondare i gusti degli alunni, cercando di fare esprimere le loro potenzialità, soprattutto per quelli che presentano problematiche particolari. Comunque la ragazzina è tranquilla, non crea problemi, purché la si assecondi e non si contraddica”. Stavo già cominciando a preoccuparmi…

Mentre mi dirigevo in aula di sostegno con Sabrina, incontrai un collega che, con entusiasmo e sottovoce mi disse: “Ah che bello, tu sì che sei la persona giusta! Mi raccomando, cerca di insegnarle a dipingere! Sarebbe un’ottima opportunità per lei! Almeno non andrà in giro per le classi a fare dispetti ai compagni!” “Mamma mia! – Pensavo - Ma che problemi avrà questa ragazzina? Meno male che è tranquilla! Cercherò di fare del mio meglio e poi, mi sembra così carina…!” Arrivate in aula, Sabrina prese il materiale e cominciò a dire ad alta voce: “Adesso dipingo! Faccio un quadro bellissimo!” E ripeteva la stessa frase. La prima cosa che le dissi fu: “Vuoi vedere come si fa un pesce così tu lo copi? Oppure vuoi che io faccia il disegno e poi tu lo colori?” “No, lo faccio io!” “Va bene, sbizzarrisciti pure”. “Adesso io ti preparo i colori e tu puoi iniziare a lavorare”. Ma quando mi avvicinai ai barattoli dei colori per cospargere la giusta quantità (minima) lei subito mi fermò: “Nooo!!! Lo faccio io” Mi ricordai di quelle parole: “Non bisogna contraddirla…” e così la lasciai fare. Quanto colore stava sprecando!

Cominciò a imbrattare tutto il foglio bianco in modo inconsulto con macchie insignificanti alla rinfusa. Quando le dissi: “Posso darti un suggerimento?” Lei mi graffiò la mano e mi disse: “Zitta!” Sto facendo un ‘opera d’arte. A quel punto, preferii allontanarmi un po’ da lei, per non rischiare di farmi ulteriormente graffiare. Dopo un po’ vidi che assaggiava i colori per poi cospargerli sul foglio. Adesso stava superando il limite. A quel punto mi vennero in mente le parole della preside: “A Sabrina piacciono i colori”. Subito gridai: “Ferma! Non si mangia il colore…! Fa male!” Ma lei, indifferente ripeteva: “Non si mangiano i colori! Non si mangiano i colori!”. Dopo qualche minuto fece lo stesso gesto mentre io fremevo perché mi sentivo impotente, ma a questo punto decisi di farla smettere, dato che aveva addentato il colore per ben tre volte. Per impedirglielo, avrei dovuto contrastarla fisicamente e ciò era impossibile.

Ad un certo punto, Sabrina prese il piatto di plastica pieno del miscuglio e lo gettò per terra, sporcando vistosamente il pavimento. Mi sentivo davvero in difficoltà, non sapevo cosa fare. Le ordinai di pulire, ma anche in questo fu oltremodo restia per cui, con tutta calma, me ne occupai io stessa. A quel punto decisi di farla smettere e le dissi con decisione: “Basta, qui a scuola non puoi più dipingere, perché non capisci che il colore non si mangia! Non è quello della pasticceria!” Lei si imbestialì e si mise a gridare: “Voglio dipingere e poi lo voglio appendere!” In quel momento entrò la dirigente e per farla calmare le disse: “Vediamo, cosa hai fatto di bello? Mostrami il tuo capolavoro!” Sabrina prese il cartellone, le si avvicinò dicendo: “Ho fatto i pesci! Ho fatto i pesci! La prof. mi ha detto che non mi vuole più fare dipingere! Cattiva!” La dirigente: “No, non ci credo! Forse la prof. scherzava, è vero professoressa?” Avrei voluto vedere fino a che punto la dirigente facesse sul serio e in quel momento le avrei anche raccontato ciò che era accaduto nell’arco di quella mezzora, ma purtroppo cambiò subito argomento, probabilmente per fare distrarre la ragazzina. Ero talmente tesa che non riuscii a pronunciare una sola parola. Intanto Sabrina si avvicinò col suo cartellone alla preside e in un solo attimo, glielo attaccò addosso, imbrattandole l’abito di seta.

La dirigente era sconvolta, a disagio, non sapeva se sgridarla o far finta di niente. Quando suonò la campanella, feci un sospiro di sollievo e mi sembrò di essere stata ai lavori forzati, mentre la tensione nervosa era al culmine. Tutto sommato, mi fece piacere che Sabrina aveva sporcato con i suoi colori preferiti l’elegante abito della dirigente! … In fondo… se lo era meritato! Perché quando simili episodi accadono a noi docenti, tutto passa inosservato e non solo, sovente la dirigenza tende pure ad addossarci le colpe, credendo che noi docenti siamo incapaci della gestione. Una cosa è certa: da quel giorno la preside non si permise più di darmi dei consigli in proposito. Probabilmente (me lo auguro) dopo aver vissuto personalmente l’esperienza, avrà capito che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Troppo facile redarguire e dare ordini agli insegnanti, senza avere cognizione della realtà! A parte tutto… penso, con il senno del poi, che non sia stato giusto assecondare Sabrina, facendole usare le tempere, perché considerando i danni che era capace di creare, anche a sé stessa, non era opportuno dargliela vinta. L’alunna si sarebbe dovuta capacitare con delle matite colorate, anche contro la sua volontà. E per concludere: decisi infatti di non farle più usare le tempere durante le mie ore di lezione (per fortuna) saltuarie, ignorando il dissenso della preside e di alcuni insegnanti.

ENNESIMO SCHERZO IN CLASSE

Avendo io un' indole molto scherzosa, mi diverto di tanto in tanto a improvvisare degli scherzi in classe. Nel corso della mia carriera ho fatto parecchi scherzi ai miei alunni. Adesso ne racconto un paio dei più recenti: Siccome una classe di terza non aveva ancora il nuovo prof. di musica che doveva essere ancora nominato, tutte le volte che avevo lezione gli alunni mi chiedevano: “Quando arriva il prof. di musica? Lei lo conosce? Come si chiama? Come sarà?” E così un giorno ebbi un'idea: Mi rivolsi all'intera classe con tutta serietà: “Per favore, un attimo di attenzione! Vi parlerò della prof. di musica che domani arriverà in questa scuola. Si chiama pstrhferrenmentosgtr”. I ragazzi guardavano sbigottiti e mi chiesero in coro: “Come si chiama?” Io allora ripresi: “Mi dovete scusare, ma non riesco a pronunciare bene il suo nome perché è molto difficile. Questa prof. non è italiana, ma arriverà dal Kongo” I ragazzi: “Davvero?” “È molto scura, anzi, scurissima! Ma è una bella donna, ve lo assicuro! Abbastanza severa e bravissima, quindi per voi sarà una fortuna averla come insegnante!”

“Veramente?” Ripresi, senza far capire che stavo scherzando: “C' è soltanto un piccolo problema: non parla in italiano ma solo in francese”. I ragazzi preoccupati: “E come si fa? Non capiremo niente! Noi studiamo solo l'inglese!” “Tranquilli, ragazzi, è molto comprensiva, del resto, durante le ore di lezione che avrete con lei, passerete il tempo a suonare e ad ascoltare la sua musica,” I ragazzi molto perplessi: “Ma come si fa a capire le spiegazioni, se non capiamo il francese?” “Ci sarà un rimedio, non vi preoccupate! Lei è molto brava a gesticolare, quindi comunicherete con i gesti. Basta gesticolare e tutto diventerà molto semplice. Avete capito? Spiegherà molto poco, anzi non spiegherà per niente! Vi divertirete ad ascoltare musica afro e poi questa professoressa, essendo specializzata in percussioni, porterà il suo strumento musicale e suonerà per voi. Vi insegnerà a suonare sui tamburi. Non siete contenti?” “Un alunno disse: “Allora sarà un vero sballo!” Eccitatissimi i ragazzi: “Che bello!!! È stupendo!!! Ma allora ci divertiremo! Io intanto sotto sotto ridevo, ma non lo davo a capire. Gli alunni ridevano. Qualcuno di loro, preso dall’euforia, si alzò persino dal suo posto.

Ad un certo punto dovevo pur dire loro che si era trattato di uno scherzo, altrimenti che figura avrei fatto se questi tornando a casa, avessero raccontato alle loro famiglie quelle tante frottole? Mi decisi e dissi allora: “Un attimo di attenzione per favore! Ditemi la verità, ma voi davvero mi avete creduto?” Osservai i loro volti delusi: “Non ci dica che non è vero!” Certo che non è vero! È uno scherzo? Come potrei sapere chi sarà il vostro insegnante di musica?” Dopo un po' tutti scoppiarono a ridere e mi dissero: “Ma come ha fatto prof. a farcelo credere? Peccato però che sia stato uno scherzo!” Lo stesso giorno tenni lezione in una prima. Verso la fine dell'ora, mi venne l'idea di fare lo stesso scherzo, ma modificandolo, anche perché in questo caso gli alunni erano più piccoli e più ingenui, decisi comunque di spararla proprio grossa e dissi loro: “Ragazzi, vi comunico una bella notizia: Voi state ancora aspettando il nuovo insegnante di musica, dato che ancora non è stato nominato. Ebbene, finalmente domani arriverà e già si sa chi è. Si chiama Alien. È una persona spaziale, molto intelligente, anzi un vero genio.”

Dopo un po' ripresi: “Arriverà da molto lontano. Indovinate da dove?” I ragazzi, molto incuriositi, non risposero e così ripresi: “Da un altro pianeta…pensate…arriverà da Marte!” Intanto osservavo le loro espressioni sempre più sbigottite. Datosi che il mio atteggiamento era stato di proposito molto serio, questi ci avevano creduto. “Quindi è un marziano. – ripresi a dire - La pelle è verde, gli occhi molto grandi, il collo molto lungo. Avete presente il film: “Incontri ravvicinati del terzo tipo? Ebbene, assomiglia proprio a quel personaggio del film. Però non abbiate paura! È bruttino, d'accordo, anzi, fa addirittura impressione, ma vi assicuro che è molto buono ed anche molto bravo. Il fatto che già arrivi da Marte vi dice tutto!” Qualcuno mi disse: “Prof, ci faccia il disegno!” A quel punto pensai di realizzare un disegno alla lavagna, cercando di rappresentare in modo approssimativo il ritratto, mentre gli alunni esclamavano: “Oh, incredibile! Davvero pazzesco! Non può essere!”

Ripresi ancora: “La sua musica è straordinaria e quindi vi insegnerà a suonare in un modo spettacolare, direi in modo alienante. Noi dovremmo imparare molto dagli alieni, quindi non è un caso che in questa scuola arrivi un marziano e tutti noi insegnanti, compresa la dirigente, ci auguriamo che questo professore possa trasmettervi oltre alla sua disciplina, un’educazione superiore, essendo un essere molto più evoluto di noi. Sappiate che ne avremo un grande privilegio!” Una ragazzina disse con stupore: “Ma allora gli alieni esistono veramente?” “Certo che esistono! Ne parleranno anche i giornali, anzi verrà persino una troupe televisiva a scuola e sarà un evento troppo importante. Vi rendete conto, ragazzi, che fortuna e che privilegio avremo? Un insegnante marziano! Invece a volte capita di trovarci vicino a delle persone alienanti, capaci solo di appesantire il nostro animo. Questo professore spaziale invece è straordinario, è unico! Tutte le scuole del Mondo ci invidieranno!”.

Intanto mi divertivo ad osservare i loro volti, erano tutti senza parole, incantati, spaesati, incuriositi ed iniziavano già a pormi delle domande. Nessuno dubitava delle mie parole, perché ero troppo seria, troppo convinta, ma era però arrivato però il momento di svelare la verità. A quel punto, dopo aver mostrato un po' di delusione, tutti scoppiarono a ridere e io con loro. Devo ammettere che ho avuto e continuo ad avere tante soddisfazioni nel mio lavoro di insegnante, anche perché il mio spirito allegro rende sicuramente la lezione più accattivante e poi devo confessare che almeno in questi casi, ho la possibilità di esternare le mie doti recitative e perlomeno in questi momenti mi sento trasformata in animatrice, rendendo nel contempo il lavoro meno pesante. Sappiamo benissimo che ridere fa bene alla salute e serve a scaricare tante tensioni nervose.

MOMENTI DI SUSPANCE E DI RISATE IN CLASSE

Una mattina, in una classe di prima media, appoggiai il borsone sulla cattedra, tirai fuori il materiale e mi misi a cercare il foglio che avevo preparato per la verifica di storia dell’arte. Avrei fatto le fotocopie da distribuire a ciascuno degli alunni e dare il via per il compito, però non riuscivo a trovarlo e loro trepidavano. “Chissà che domande saranno?” Pensavano. “Probabilmente l’avrò dimenticato a casa, un po’ di pazienza ragazzi!” Nel frattempo sfogliavo il mio voluminoso raccoglitore di fogli. Un alunno disse a bassa voce: “Speriamo che l’abbia dimenticato, così non facciamo la verifica!” Ed io di rimando: “Non vi preoccupate, tanto se non lo trovo, la verifica si farà la settimana prossima”. Sussultarono in coro: “Ehhhhhhhhhhhhhh!!!!” Ripresi: “Ma non è finita qui! La volta prossima farete due verifiche! Quella sull’argomento di oggi e quella sul nuovo argomento!” E loro: “Noooooooooooooooooo!!!!!!”

Dopo un po’ dissi: “Ma non è detto che il foglio con le domande l’abbia dimenticato a casa!” E nel frattempo sfogliavo l’altro raccoglitore. Tutti stavano zitti, non volava neanche una mosca. Ad un certo punto, mi venne spontaneo fare loro uno scherzo: presi un foglio, il primo che mi capitò fra le mani, riguardante il riassunto del nuovo argomento che avevo preparato e feci finta che fosse il foglio che cercavo, dove apparentemente sembrava ci fossero una miriade di domande. Con la massima serietà, lo mostrai agli alunni (nascondendo il titolo dell’argomento) e dissi: Ecco ragazzi, l’ho trovato! Guardatelo pure. Ci sono cinquanta domande a cui dovrete rispondere, ma non vi preoccupate! Avrete due ore di tempo per svolgere il compito in classe. Sono sicura che avete studiato!” Gli alunni guardavano trafelati, senza fiatare. Non credevano ai loro occhi, ma ebbi subito pietà e dissi loro: “Ci avete creduto?! Stavo scherzando!” Tutti scoppiarono a ridere. Tra il serio e il faceto dissi: “Ragazzi, per caso qualcuno di voi ha invocato l’aiuto di qualche Santo? Va bene, ragazzi, questa volta vi è andata bene! Ho dimenticato il foglio a casa, quindi oggi la verifica non si farà. Disegnerete e poi vi spiegherò la lezione nuova”.

Loro, gioiosi: “Sììììììììììììììììììììììì!!!!!!!!!!!!!” “Calmatevi ragazzi, può anche darsi che lo troverò! Magari sarà nella mia cartelletta tra i disegni!” Dopo dieci minuti, il tempo di farli rilassare, presi la cartelletta, la poggiai sulla cattedra, la aprii, infilai la mano e dissi con tanto entusiasmo: “Eccolooo!!! l’ho trovato!!!” Tutti in coro: “Nooooooooooooooooooooo!!!!!!!!!!” Subito tirai però fuori l’album e continuai: “Ecco l’album che non riuscivo più a trovare!!!” I ragazzi scoppiarono a ridere ed io appresso a loro. Dopo un po’ gli alunni ripresero a disegnare come se nulla fosse stato e la verifica fu rimandata.

CURRICULUM

di Olga Serina

. Cantautrice dal 1983 al 1989 . Ritratti dal vero ai turisti presso la Fiera del Mediterraneo di Palermo e nella località di Taormina (dal 1983 al 1997). . Animatrice caricaturista e ritrattista presso Agenzie di Spettacolo di Milano per Convegni e feste private (dal 1990 al 1998). . Lezioni private di disegno e pittura a Legnano (dal 2006 al 2014) per bambini e adulti. . Mostre di pittura presso gallerie, Comuni, Chiese in diverse località e presso il Palazzo Ducale di Palma di Montechiaro (dal 1983 al 2014).

. Video: ARTE PURA di Olga Serina (650 opere artistiche) Durata 40 minuti. . Dal 2007 Insegnante di Arte e Immagine presso Ministero della Pubblica Istruzione (provincia di Milano). . Pubblicazioni libri dal 1989 al 2018:

1 - GRANDE TERRAZZA (Racconti di esperienze di viaggio). 2 - SULLE ALI DELL’ARTE (Considerazioni e riflessioni del rapporto tra arte e spiritualità). 3 - DIO NEL CUORE (Riflessioni sul tema spirituale). 4 - IL MIRACOLO CONTINUA (Riflessioni sui segni del soprannaturale). 5 - LA REALTA’ CHE SUPERA LA FANTASIA (Racconti umoristici, reali e fantastici). 6 - SOS SCUOLA (Ricognizione di testimonianze raccolte tra persone operanti nell’ambito scolastico). 7 - IL MATRIMONIO DEL CACTUS (Racconti umoristici). 8 - USI E ABUSI DEL POTERE (Storie di mobbing nella Scuola) 9 - QUANDO I NANI SI CREDONO GIGANTI (Racconti inventati e storie reali). 10 - PENSIERI PER VOLARE (Meditazioni di uno spirito libero).

. Realizzazione di video (pubblicati su youtube) riguardanti recite, poesie, racconti e riflessioni, che trasmettono messaggi educativi, illustrati dalla stessa autrice, tra cui: “Dall’ignoranza nasce il business”. “La sovversione del senso dell’arte”. www.olgaserina.it pagina fb: Olgallery pagina fb: Olgabook


Quando i nani si credono giganti  
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